Negli ultimi anni si sono moltiplicate le oneste ammissioni, provenienti da illustri e autorevoli esponenti del capitalismo, della sostanziale correttezza di taluni aspetti cruciali delle analisi a suo tempo varate e sviluppate da Karl Marx.

Per cominciare, è stato l’organo per così dire ufficiale del potere capitalistico internazionale a riconoscere l’esattezza di taluni aspetti di questa analisi. Mi riferisco all’Economist, il quale, pur sottolineando la mancata realizzazione dei sogni di Marx da parte del socialismo reale, evidenzia tuttavia la giustezza di sue talune previsioni di fondo relative all’evoluzione del sistema capitalistico, consistenti soprattutto nella crescente diseguaglianza economica e sociale, nelle crisi ricorrenti e nella dominazione di un numero sempre più piccolo di enormi aziende su mercati sempre più vasti. In conclusione, afferma l’Economist, non si può certo dire che il capitalismo abbia trionfato, sebbene lo stesso Marx ne abbia palesemente sottovalutato taluni aspetti positivi che ne testimoniano un’indubbia vitalità.

E qui il discorso andrebbe ulteriormente sviluppato in senso critico, così come eccessivamente generiche appaiono le prese di posizione dell’Economist rispetto alle esperienze del socialismo reale, che hanno conosciuto indubbi fallimenti ma anche innegabili successi, come dimostrato ad esempio dal fatto che la Cina popolare ha fatto uscire dalla povertà centinaia e centinaia di milioni di persone.

Ma soprattutto giova qui riferire il famoso paradosso enunciato da un protagonista indiscusso del capitalismo mondiale, lo statunitense Warren Buffet, il quale a varie riprese qualche anno fa dichiarò che la lotta di classe esisteva e che la stava combattendo e vincendo la sua classe, cioè quella per l’appunto dei capitalisti.

Le parole di Warren Buffett andrebbero incorniciate e poste in effigie in tutte le sedi politiche e sindacali che in qualche modo dicono di essere di sinistra. Non mancano infatti gli ideologi buontemponi, un po’ alla Calenda per intenderci, che negano l’evidenza, e cioè l’esistenza del conflitto di classe. E la sensazione che il conflitto di classe sia qualcosa di ormai sorpassato e antistorico è molto diffusa anche fra coloro che da tale conflitto dovrebbero trarre spunto per mettere a punto una strategia di trasformazione sociale ormai non più rinviabile.

Ogni capitalismo ha le sue caratteristiche. Quello italiano appare oggi più che mai in un vicolo cieco, imperniato irrimediabilmente com’è sull’ipersfruttamento selvaggio della forza-lavoro come alternativa alla necessaria innovazione di prodotto e di processo che non è in grado di produrre, e sull’esaltazione del “particulare” di guicciardiniana memoria, esasperato fino a legittimare senza vergogna l’evasione fiscale, come alternativa a un ruolo delle istituzioni pubbliche oggi più che mai necessario, al quale la nostra classe dominante rinuncia consapevolmente come dimostrato da ultimo dalle grottesche vicende del Pnrr.

Così come rinuncia ad ogni ruolo autonomo del Paese sullo scacchiere internazionale, proprio nel momento in cui i sussulti derivanti dallo scardinamento, che è in atto, degli Stati Uniti come potenza guida del pianeta determinano l’apertura di nuovi spazi e impongono uno sforzo di aggiornamento e iniziativa a governanti adagiati su una funzione di puro sopporto ai poteri esistenti sulla scena mondiale.

Una forza che ambisca a un ruolo di opposizione che non sia puramente esornativo e privo di ogni effetto sulla realtà, anche solo in termini meramente elettorali, deve quindi tornare alle radici, identificando nello scontro fra capitale e lavoro il vero motore della storia, anche della nostra storia nazionale apparentemente incamminata sul binario morto del draghismo meloniano.

Il fatto che il governo in carica abbia deciso di dedicare la propria riunione, che si svolgerà proprio il Primo Maggio, Festa dei lavoratori, all’adozione di un’ulteriore serie di misure, a cominciare dalla drastica riduzione del reddito di cittadinanza, destinate ad aggravare il fossato tra ricchi e poveri, e all’ulteriore impulso alla precarizzazione di ogni rapporto di lavoro, dimostrano in modo inequivocabile come esso abbia ben capito questo elementare principio e si avvii a praticare senza sconti e senza pietà la lotta di classe dal lato di quelli che stanno sopra.

Come scrivono Luciano Vasapollo e Rita Martufi a pagina 68 del loro recente libro Fire in the Sky, denso di interessanti contributi e proposte sulle politiche da mettere in campo, il patto sociale è ormai morto e sepolto da tempo, in tutto l’Occidente capitalistico. C’ è speranza che lo capiscano finalmente almeno taluni più fini intelletti presenti nelle file politiche e sindacali delle forze di sinistra?

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