di Valerio Pocar

Chi legge vorrà scusarci se torniamo su un argomento che, nelle scorse settimane, ha suscitato un certo clamore e un giustificato allarme: alludiamo alle affermazioni pubbliche della seconda carica dello Stato sull’attentato partigiano di via Rasella, affermazioni che ci permettiamo di non ripetere qui virgolettate, non solo perché note, ma anche perché indecenti, soprattutto in quanto false. Qualche giorno dopo la Presidente del Consiglio ha liquidato l’uscita del suo sodale (a lei, forse, piacerebbe chiamarlo “compatriota”) definendola una “sgrammaticatura”. Ora, una sgrammaticatura è un errore di grammatica e in questo caso si deve intendere come una violazione della grammatica o meglio del galateo istituzionale, che non impone, ma suggerisce a coloro che ricoprono cariche pubbliche, specie se di grado elevatissimo, di usare prudenza nelle loro esternazioni. Nel caso, la seconda carica dello Stato non ha fatto tesoro dell’ammonimento di una antica e cara amica mia di Rovereto (la quale, lo dico di passata, arrestata dai fascisti nel 1944, la sfangò per miracolo), che soleva ripetere «prima de parlar, tasi».

L’infelice uscita è stata per lo più valutata da parte dei media, anche se non sono mancate molte e accurate precisazioni storiografiche, appunto come un errore di grammatica istituzionale, come certamente è ed è grave. L’autore della dichiarazione, il giorno seguente, incalzato dalle contestazioni, si è “scusato” con parole che vogliamo, benevolmente, definire ambigue: «voglio invece scusarmi con chi anche in forza di resoconti imprecisi abbia comunque trovato motivi di sentirsi offeso», come dire che l’offesa nasce dalla sensibilità degli offesi e non dalle parole pronunciate dall’offensore. Peggio la toppa del buco.

Non è inopportuna, però, qualche ulteriore precisazione. Una “sgrammaticatura” è sì un errore di grammatica, ma nel caso bisogna distinguere tra l’errore frutto di ignoranza e l’errore voluto, che meglio si deve definire menzogna, falsità, bugia, vale a dire il deliberato tentativo d’ingannare. Dell’errore frutto d’ignoranza, infatti, non occorre “scusarsi”, giacché basta riconoscerlo e correggerlo, per ristabilire la verità. Ci si deve “scusare”, invece, quando non di errore si tratta, ma della prospettazione volutamente falsa della verità, cosa moralmente riprovevole.

Che il reggimento Bozen fosse una formazione di giovani SS chiamati alla repressione e al rastrellamento delle formazioni partigiane, come tutti i documenti attestano e confermano, e non già un’innocua banda musicale di riservisti pensionati di cui ha parlato la seconda carica dello Stato, è una verità accertata. Dire il contrario è con certezza una menzogna. Dunque, delle due l’una: o si tratta di crassa ignoranza che mal si giustifica in soggetti di rango istituzionale elevato che sarebbero tenuti a non parlare a vanvera, oppure si tratta della volontà di dire una falsità al fine d’ingannare, per propri inconfessati o inconfessabili motivi, comportamento che da parte di un soggetto di rango istituzionale elevato è semplicemente osceno.

Chi ha ritenuto di definire disinvoltamente quelle dichiarazioni come una semplice “sgrammaticatura” preferisce mostrare di ritenere che di errore si sia trattato piuttosto che di menzogna, cosa che, nei confronti di una persona anziana che ha vissuto, evidentemente suo malgrado, la vita della Repubblica democratica, non si sa dire se, ancora una volta, non sia una pezza peggiore del buco. Ciò che, però, è più grave è che né l’uno né l’altra abbiano ritenuto di enunciare la correzione dell’errore, cioè di dire la verità.

Il dichiarante si è giustificato affermando di non avere difficoltà a precisare che «ho sbagliato a non sottolineare che i tedeschi uccisi fossero soldati nazisti, ma credevo che fosse ovvio e scontato». Perché allora il dichiarante ha pensato di dire il contrario della verità, già che dava per scontato che fosse conosciuta, anzitutto da lui stesso? Di nuovo, peggio la toppa del buco.

Il guaio è che chi disinvoltamente ha ritenuto di giustificare una menzogna come una perdonabile sgrammaticatura è a sua volta colpevole della medesima, sicché anche qui si pone la medesima alternativa. Dire che l’eccidio delle Fosse Ardeatine abbia colpito le vittime solo in quanto e perché erano italiani è un errore per ignoranza oppure un falso voluto per ingannare l’opinione pubblica? (…)

Tutte queste bugie sono funzionali a una strategia della destra, volta a minimizzare le atrocità fasciste e la correità dei repubblichini con i nazisti occupanti: siamo ormai al “fascisti brava gente”. Del resto, il luogotenente del sedicente “liberale” che si è speso per sdoganare i postfascisti e il loro partito si permette di dichiarare che il «fascismo è roba passata, ha fatto più danni che cose utili»: siamo al solito ritornello, che Mussolini, oltre ad aver distrutto il suo Paese, ha fatto anche cose buone. Chissà se anche i postfascisti saranno capaci di fare “anche cose buone”.

Siamo alla vigilia del 25 aprile e ci aspettano, temiamo, molte altre “sgrammaticature”.

Ps. Giusto per cominciare a far “cose buone”, si negano diritti ai bambini perché non piacciono le scelte di vita dei genitori, oppure si vuole usare il pugno di ferro – oltre che nei confronti dei rave party – contro i ragazzi che, magari con metodi disapprovabili o controproducenti ma pacifici e innocui, imbrattano in modo facilmente lavabile monumenti od opere d’arte, ragazzi motivati da ragioni giuste e condivisibili. Sempre per fare anche “cose buone”, perché non si usa piuttosto il pugno di ferro nei confronti degli evasori fiscali, piuttosto che graziarli? e magari anche nei confronti dei giovani e meno giovani fascisti che picchiano e “imbrattano” la Costituzione antifascista?

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