Cinema

Nanni Moretti, Il sol dell’avvenire pastiche tragicomico tra riesumazione di Trotsky, crisi di coppia ed esercizio di culto per il regista demiurgo

di Davide Turrini

Aridategli Lev Trotsky. Nanni Moretti continua ad inseguire la sua personale ossessione drammaturgica di una imperitura, traumatica, reiterata separazione sentimentale. Nel senso che vorrebbe fare un film sulla crisi di coppia (che però non guarderebbe nessuno e che infatti non prepara mai per intero). Eccolo allora, con arguzia spinta, ancora una volta deviare, mescolare, disorganizzare il suo nuovo film, Il sol dell’avvenire, sul versante politico nel tipico pastiche tragicomico morettiano. Quello delle “immagini brutte”, piatte, banali, condite da quello humor autobiografico per fan affezionati. Sarà una forma di protezione per il proprio pubblico, ma i film di Moretti da vent’anni a questa parte si fatica a “guardarli”. Perché a forza di levigare l’aspetto estetico, a renderne gli ipotetici eccessi il meno gratuiti possibile (sul pippone che fa ad un regista di un film d’azione torniamo a breve), in scena rimane solo la terroristica convenzionalità di camicie, maglioncini e i primi piani di Nanni (tanti, davvero).

Ne Il sol dell’avvenire, insomma, lo strazio della separazione dalla moglie (Margherita Buy) che travolge il protagonista, il regista Giovanni (Moretti), rimane carsicamente sottotraccia (vedi quel che accade al protagonista de Il Caimano), mentre sembra come continuamente divaricarsi e fondersi il film (nel film) che Giovanni gira nel 1956 in una sezione periferica del PCI a Roma dove arriva il circo ungherese Budovari, mentre a Budapest irrompono i carri armati sovietici a reprimere col sangue i moti di ribellione al sistema sovietico. Così se Ennio (Silvio Orlando), il segretario della sezione, rimane trinariciuto e fedele alla linea del partito, Vera (Barbora Bobulova), sua moglie, che fa la sarta, va in ebollizione per i ribelli ungheresi. La ricucitura improbabile tra Ennio e Vera scorre in parallelo alla ri-composizione sentimentale impossibile tra Giovanni e sua moglie, peraltro produttrice storica dei suoi film ma che qui affianca la produzione claudicante del film del marito con la produzione di un action movie di alto rilievo commerciale che Giovanni detesta. Se c’è un elemento peculiare prettamente fomale ne Il sol dell’avvenire è proprio questa compenetrazione di dimensioni spaziali/temporali (il set nel set con le stanze contigue che vengono attraversate e le riprese in oggettiva dall’alto) per una narrazione puntellata dal solito ossigeno vitale di brani musicali italiani (Battiato, Tenco, ecc…) dove sciogliersi in un ballo corale e da quelli che oramai sono veri e propri sketch comici idiosincratici (vedi la gag sui sabot) dell’autore demiurgo slegati dalla narrazione principale.

Un esempio è ciò che accade sul set del film d’azione dove il regista Giovanni blocca fisicamente con prepotenza l’ultimo ciak di pura violenza e sbucano i veri Renzo Piano, Corrado Augias e Chiara Valerio in chiave di comico disimpegno ma chiaramente lì a farci la moralina perfino su Apocalypse Now, nel caso non avessimo capito l’uso della violenza nel film di Coppola. Dall’altro lato c’è un dato politico da piccolo mondo antico, substrato nostalgico pietrificato, che nel suo anelito libertario di 67 anni fa (“la storia si fa con i se”, dice Giovanni, quindi nel suo film la base operaia comunista si ribella al partito) spinge ad un richiamo ufficiale per l’interesse ipotetico sul vetusto tema provato da casalinghe, braccianti e pastori di morettiana memoria. Se si pensa che l’autore di Caro diario riesuma il trotskismo nel 2023 non più per il famigerato musical con il pasticciere (amici, non era una battuta, chiaro?) ma per usarlo come spuntata arma politica di cambiamento (dopo il ’56 ci sono stati il ’68 e il ’77 poi tutta la controffensiva liberista degli anni ’80, delle terze vie dei ’90, ma fa nulla) e anche come velato spunto liberatorio socio-individuale, si comprende quanto Il sol dell’avvenire abbia politicamente fiato cortissimo in debito di lacrimoni per la marcia trionfale ai Fori Imperiali con tutti i personaggi di questo film e dell’intera filmografia morettiana (tra gli altri Sastri, Carpentieri, Trinca, e pure l’ex moglie Silvia Nono) a reggere bandiere rosse e immagini di Lev Trotsky (sic), liberati psicologicamente e finalmente dal giogo dello stalinismo. Infine, se si può scrivere, Buy, Orlando, Bobulova per nostra fortuna infondono una minima vitalità al film, perché come sempre la cristallizzazione della presenza morettiana al centro della scena diventa spasmodico esercizio di culto rivolto allo spettatore/fan fin quasi ad un annullamento di una vera e propria funzione registica dietro la macchina da presa. Sull’impercettibile sottotrama buttata lì per star dentro al progressismo attuale con la coppia gay osteggiata dai cattivi comunisti e l’ultima inquadratura feticista con Giovanni/Moretti nel corteo che fa ciao ciao con la manina verso la macchina da presa cali per sempre un dignitoso silenzio.

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