In Italia un giovane su quattro è a rischio povertà. Dal 1990 a oggi l’Italia è l’unico Paese Ocse in cui i salari non solo non sono aumentati, ma sono addirittura crollati: -2,9%. Nel 2022 erano più bassi del 12% in termini reali rispetto al 2008, secondo quanto affermato dal Global Wage Report 2022-23 dell’OIL (Organizzazione Internazionale del Lavoro). E negli ultimi anni, a una situazione già nera, si è aggiunto il boom dei prezzi, che ha fatto crollare il potere d’acquisto di lavoratori e lavoratrici.

Il quadro, insomma, ci restituisce un’Italia dai bassi salari, che non aumentano – anzi diminuiscono! – e con un’inflazione che li attacca ulteriormente.

Tra i banchi del governo, però, pare non se ne sia accorto nessuno. Vivono, probabilmente, su un altro pianeta. L’estrema destra di governo è, infatti, ferocemente contraria all’introduzione di qualsiasi forma di salario minimo. In questa battaglia si trova, guarda caso, dallo stesso lato della barricata di gran parte dell’imprenditoria italiana, della quasi totalità del potere mediatico e di quei “poteri forti”, che a parole Meloni, Salvini & Co. combattono, ma di cui condividono praticamente ogni progetto.

Il rifiuto del salario minimo si appoggia alla giustificazione teorica secondo cui per tutelare i salari basterebbe estendere la contrattazione collettiva, accompagnando questa misura con il taglio delle tasse “sul lavoro”.

Anche in casa Pd, malgrado i proclami delle ultime settimane, non la pensano tanto diversamente: le proposte presentate in Parlamento puntano a rafforzare l’applicazione dei Ccnl vigenti.

Il ragionamento di fondo è sempre lo stesso: in un Paese con ampia copertura da parte dei contratti collettivi nazionali di lavoro come l’Italia, meglio obbligare gli imprenditori ad applicare i contratti sottoscritti delle organizzazioni maggiormente rappresentative nel settore (leggi, di regola, Cgil, Cisl e Uil), anziché fissare precise soglie minime inderogabili.

Questa teoria si scontra però con la dura realtà: secondo gli stessi dati del Ministero del Lavoro, in Italia ci sono almeno 3 milioni di lavoratori poveri, cioè persone che pur lavorando non raggiungono la soglia di povertà. Non è tutta colpa dei “contratti pirata” – che pure sono un problema. Anche i contratti sottoscritti di sindacati maggiormente o comparativamente più rappresentativi in troppi casi non contrastano il carovita ma, soprattutto, non prevedono condizioni retributive minime in grado di garantire a lavoratori e lavoratrici un’esistenza libera e dignitosa. A dirlo non è Potere al popolo!, ma – in continuità con altre pronunce di merito – una sentenza della Corte d’Appello di Firenze del 28 marzo 2023, che ha riconosciuto a un lavoratore l’applicazione di un trattamento retributivo diverso da quello stabilito dal contratto collettivo nazionale di lavoro applicato al rapporto di lavoro, pur se sottoscritto dalle associazioni maggiormente rappresentative nel settore di riferimento (Ccnl Vigilanza Privata e Servizi Fiduciari, sottoscritto per la parte lavoratrice da Cgil, Cisl e Uil). La motivazione dei giudici? Il compenso previsto dal suddetto contratto collettivo è troppo basso e non permette al lavoratore di affrontare il costo della vita: dunque è incostituzionale.

Mario (nome di fantasia) fa il portiere – addetto al controllo degli accessi per Poste Italiane. In realtà non lavora alle dirette dipendenze di Poste, ma per una cooperativa che gestisce il servizio di controllo varchi per suo conto. È il fantastico mondo delle esternalizzazioni e degli appalti che tanti lavoratori conoscono fin troppo bene.

La paga è misera: guadagna tra i 5 e i 5,6 euro lordi l’ora. Per poter arrivare a uno stipendio decente è costretto a fare tanti straordinari. Nel corso del rapporto di lavoro la cooperativa datrice di lavoro applica diversi contratti collettivi, passando da quelli “pirata” firmati da organizzazioni minori come Confsal o Ugl, al Ccnl Vigilanza privata e Servizi Fiduciari firmato invece dalle organizzazioni “comparativamente più rappresentative” Cgil, Cisl e Uil. Ma per Mario cambia poco: la paga è la stessa, 8-900€ al mese, una miseria che non gli consente di mettere il piatto a tavola né per sé, né per la sua famiglia. Affidarsi al contratto nazionale firmato dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative, come ritengono sufficiente Meloni e buona parte del centro-sinistra, per Mario significa fare letteralmente la fame.

Le avvocate che assistono Mario, Silvia Ventura (che collabora anche con il Telefono Rosso di Potere al popolo!) e Alida Surace, hanno scelto di affidarsi alla Costituzione. L’art. 36 afferma che “il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa”. La sentenza ha stabilito che tutti i contratti applicati al lavoratore nel periodo compreso tra il 2013 e il 2016, incluso quello siglato da Cgil, Cisl e Uil, prevedevano una retribuzione non sufficiente ad assicurare a lui e alla sua famiglia “un’esistenza libera e dignitosa”, ossia a garantire a lui e al suo nucleo familiare la possibilità di far fronte al costo della vita medio nella città di Firenze. Di conseguenza la Corte d’Appello di Firenze ha imposto che venisse applicato il trattamento retributivo previsto da un contratto collettivo di settore più adeguato e che al lavoratore venisse riconosciuto il diritto a percepire 21.800,39 € di differenze retributive.

La sentenza dimostra due cose:

1) che la Costituzione frutto della Resistenza rimane uno strumento di tenuta democratica, anche di fronte al tentativo costante di abbassare i livelli salariali;

2) che, al di là delle parole della destra e del Pd, c’è un vuoto legislativo in questo paese, che non riguarda solo l’assenza di un salario minimo fissato per legge, ma anche e soprattutto un aggancio del salario al costo della vita, cosa che nemmeno la proposta Catalfo del M5S prevede, e che è invece al centro dalla proposta di Legge di Iniziativa Popolare che Potere al popolo! e altre organizzazioni stanno per presentare.

La strada che il governo Meloni vuole battere è tutt’altra: nel Def (Documento di Economia e Finanza) si parla esplicitamente di tenere i salari bassi, attraverso una “moderazione salariale per prevenire una pericolosa spirale salari-prezzi”. Negando l’evidenza che la stessa Bce ha dovuto ammettere, per cui la maggiore causa di inflazione non sono i salari, ma i profitti delle aziende, in particolare quelle energetiche e della Grande distribuzione (a proposito: ma qualcuno sa che fine ha fatto la tassazione degli extraprofitti di cui tutti si riempivano la bocca?).

Per concludere: i soldi per aumentare i salari senza che i prezzi corrano ci sono, e sono nelle tasche di chi si è arricchito (spesso tanto) sulla pelle di chi lavora.

La redistribuzione, però, non avverrà per opera dello Spirito Santo né per il famoso “sgocciolamento” di cui parlano da 40 anni e che nessuno di noi, qui sulla Terra, ha mai visto. Occorre, invece, aprire una stagione rivendicativa, basato sul protagonismo popolare e col sostegno alle battaglie dei lavoratori e delle lavoratrici, a partire da una campagna per un vero salario minimo di almeno 10 euro l’ora. Urgente. Necessario. Alla maggioranza del Paese.

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