La cronaca nera registra purtroppo nuovi incidenti in valanga che hanno coinvolto alpinisti esperti e guide alpine. L’elenco delle tragedie recenti si è fatto ancora più nero sotto le vette iconiche delle Alpi, come il Cervino, e intorno al gruppo maestoso del Monte Bianco: parliamo dunque delle valli con i comprensori di alta montagna, dove si considera che il turismo invernale e/o glaciale offra il più ampio spettro di possibilità, anche in epoca di riscaldamento globale e siccità. Particolarmente colpiti in questo periodo risultano i praticanti di un’attività elitaria, come lo sci-alpinismo, che paradossalmente viene spesso presentata come alternativa allo sport mainstream di discesa. Su questi elementi occorrerà pur fare una qualche riflessione, ed è un vero peccato doverlo dire così amaramente, in un mondo della montagna tendenzialmente impermeabile alle critiche e alle novità.

E’ assolutamente incredibile – sia detto con il massimo rispetto e la meno ipocrita pietà – che si possa invocare solo la desueta categoria della fatalità per alcuni incidenti recenti che hanno coinvolto alpinisti considerati di prim’ordine piuttosto che accompagnatori professionisti preparatissimi: possibile che non siano state considerate appieno le particolari condizioni dell’alta montagna dopo l’ennesima stagione di caldo e siccità, la consistenza di alcune recenti e tardive precipitazioni nevose, l’effetto nefasto del vento e persino l’indice di pericolosità dei bollettini ufficiali? Tutti fattori che, in teoria, non concedono certo margini al dubbio, per non dire di clamorosi precedenti che spiegano bene come siamo entrati nell’epoca dove è diventato possibile il disastro naturale considerato ‘imprevedibile e imprevisto’, uno su tutti il crollo del ghiacciaio in Marmolada nell’estate del 2022, con decine di cordate impegnate nell’itinerario.

Anche la traversata del dômes de Miage con la discesa sugli sci nel ghiacciaio d’Armancette, ovvero nel teatro dell’ultima tragedia, è sempre stata considerata ‘semplicemente una classica dello sci-alpinismo nel massiccio del Bianco’, e lo ha ripetuto subito ai mass-media, sconsolatamente, Alexis Mallon, personaggio apicale dell’associazione ufficiale delle scuole di sci e di alpinismo francese, che è ovviamente anche un’ottima guida e un valente soccorritore. Salvo che poi, il giorno dopo, con il bilancio delle vittime che si era fatto più tragico, gli stessi media correvano a intervistare gli studiosi esperti, come Stéphane Bornet, direttore dell’Anena, l’associazione nazionale francese che studia neve e valanghe, e le risposte erano univoche: “Il particolare inverno, unito all’elevata affluenza di questo fine settimana di Pasqua, sono stati in grado di creare le condizioni necessarie per l’innesco di questa ondata di neve sul ghiacciaio dell’Armancette”.

Ecco, è ormai indispensabile comprendere che, nel pieno di un cambiamento climatico di portata globale, non vi sia più nessuna gita in alta quota che si possa valutare sulla base delle precedenti classificazioni, per non ripetere che gli itinerari troppo frequentati siano di perciò stesso più pericolosi. Non si può non prendere coscienza che lo sci-alpinismo o l’ice-climbing sono diventate ormai attività ‘diversamente a rischio’ e spesso proibitive.

L’inevitabile cambio d’atteggiamento nei comportamenti personali da parte degli appassionati di montagna è reso più urgente dal momento che, ancora nei più recenti dibattiti sul futuro del turismo alpino, gli esperti e molti ambientalisti hanno reiterato l’idea che nuovi sport non strettamente dipendenti dagli impianti di risalita e dall’innevamento artificiale (come lo sci con le pelli, l’escursionismo con le ciaspole o le scalate con i ramponi, piuttosto che l’uso di bici da montagna con pneumatici tassellati da inverno), siano la chiave di un indispensabile ‘cambio di paradigma, un’offerta di piccoli numeri, un’economia più artigianale’, come ripete Maurizio De Matteis, autore, insieme a Michele Nardelli, del libro di riferimento in materia, Inverno liquido.

La tesi è semplice e condivisa dagli esponenti di Legambiente, Club alpino e altre associazioni che si battono – per carità, giustamente! – contro l’accanimento terapeutico di chi vuole far sopravvivere l’industria tradizionale dello sci, con altri scempi ambientali e grande spreco di acqua per preparare e mantenere le reti che alimentano i cannoni sparaneve e le piste dei vari comprensori. L’idea sacrosanta poggia sul dato di fatto incontrovertibile che sono tremila e 577 i paesi montani in Italia, ma di questi sono solo 288 quelli che hanno impianti sciistici.

Al centro del primo numero del nuovo corso de La Rivista del Cai, per esempio, un bel dossier storico-critico seguiva questo indirizzo teso a valorizzare ‘L’altra neve’. Eppure, in ben 112 pagine rivestite chic, mancava proprio quell’indispensabile riflessione sulla necessità di rivedere i criteri e l’impostazione degli sport alpini alternativi, impegnando le associazioni e le guide a lanciare nuove campagne di formazione e prevenzione. Anzi, uno dei primi articoli esaltava la 23ma edizione del trofeo Mezzalama, la maratona semi-professionistica di sci-alpinismo che si tiene ogni due anni tra i ghiacciai del gruppo del Rosa, ovvero una gara esemplare di un’altra stagione climatica, di cui oggi bisognerebbe casomai valutare attentamente i pro e i contro. A meno che non si considerino valori positivi da sostenere e divulgare lo spirito agonistico spinto all’esasperazione, l’asservimento della montagna alla logica della prestazione costi-quel-che-costi, compresi l’impiego non controllato di sostanze proibite, e la pratica selvaggia e indifferente delle alte quote – il percorso viene accuratamente preparato e messo in sicurezza dall’organizzazione con uso di elicotteri e mezzi di supporto.

Per non dire della riflessione che si dovrebbe aprire sul tema del danno ecologico, dovuto in prima battuta agli spostamenti in aereo, elicottero e automobile, che la pratica del turismo alpino contribuisce a creare. E, di certo, oggi gli alpinisti, tra spedizioni e week-end, fanno parte di quella fettina di mondo ricco, 10 per cento, che inquina tanto quanto due terzi degli abitanti del pianeta Terra.

Anche in un’annata come questa, per esempio, i club alpini e le guide hanno tenuto regolarmente i corsi per insegnare agli allievi come andare sugli sci con le pelli, scegliendo i pochi itinerari innevati, e come scalare piccozze alla mano sulle rare cascate formatesi, ma il tempo e le energie spesi per far maturare una migliore coscienza ecologica e insegnare ad affrontare i nuovi rischi non sono stati altrettanto significativi. E’ da qui che bisogna ripartire, senza spocchia. E’ facile pronunciarsi contro lo sci da discesa, i nuovi impianti di risalita o d’innevamento artificiale, le folli gare olimpiche Milano-Cortina: bisogna allargare lo spettro critico anche alle attività alternative sulla neve, piuttosto che ripensare da zero la pratica della montagna in generale.

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