“La Cina non è parte in causa nella crisi in Ucraina”. Alla vigilia della visita a Pechino di Emmanuel Macron e Ursula von der Leyen, il governo cinese smentisce per l’ennesima volta di voler mediare nella guerra russo-ucraina, che si ostina a chiamare “crisi”. Piuttosto chiede che sia Bruxelles a compiere “passi decisi” per il conseguimento della pace e della stabilità a lungo termine in Europa. Accoglienza freddina per la numero uno della Commissione europea, che insieme al presidente francese è attesa in Cina dal 5 al 7 aprile. Se nei piani di von der Leyen, “l’Ucraina sarà un importante tema di discussione”, Pechino sembra intenzionata a ridimensionare le aspettative degli ospiti. La leadership cinese svolgerà, sì, un “ruolo costruttivo” per “una risoluzione pacifica della crisi”. Ma solo promuovendo “il dialogo con le controparti europee”. Non certo isolando la Russia, con cui giusto martedì è stata ribadita la necessità di consolidare una “cooperazione pratica”.

Accantonate le aspirazioni da “peacebroker”, la Cina sembra piuttosto voler giocare la carta economica. Anche intuendo i desideri di Macron. Il presidente francese, che dal pensionamento di Angela Merkel ha cercato in ogni modo di proporsi come principale interlocutore nei rapporti tra Cina ed Europa, viaggerà con una delegazione di oltre 60 dirigenti. Tra le aziende rappresentate figurano Airbus (in trattative per la vendita di altri jet) ed Electricite de France, la società che ha contribuito a costruire la prima centrale nucleare commerciale della Cina, a Shenzhen. “Chi sano di mente abbandonerebbe un mercato così fiorente e grande come la Cina?”, commentava giorni fa ai microfoni del Financial Times Fu Cong, l’ambasciatore cinese presso l’Ue.

Il problema è che Pechino pensa di poter riportare le lancette dell’orologio a dieci anni fa, quando l’occidente si illudeva ancora, speranzoso, che il ricambio generazionale alla guida del partito avrebbe favorito una possibile apertura della Cina. Se sotto la precedente amministrazione erano soprattutto le violazioni dei diritti umani a preoccupare le cancellerie europee, con la nomina di Xi Jinping (per non parlare della controversa conferma a un terzo mandato) è diventata la sicurezza il vero nervo scoperto. Da Tik Tok, bandito dagli smartphone della Commissione Ue, alle infrastrutture portuali: il crescente controllo del Partito-Stato sull’economia cinese ha inevitabili ripercussioni per la penetrazione delle aziende nazionali nel Vecchio Continente.

Per Pechino è protezionismo. In un’intervista a Nouvelles d’Europe l’ambasciatore cinese a Parigi, Lu Shaye, ha ricordato come “il valore totale degli investimenti cinesi in Francia è di gran lunga inferiore al valore totale degli investimenti francesi in Cina.” Il diplomatico ha invitato l’Eliseo a superare “l’interferenza di terze parti”. Chiara allusione al pressing americano. Ormai è un’ossessione, accecante per quanto non del tutto immotivata. Nei comunicati ufficiali, così come sui media statali, traspare la convinzione che il peggioramento delle relazioni con l’Europa sia quasi interamente attribuibile all’ingerenza statunitense. Riassumendo il parere degli analisti cinesi, il Global Times motiva il calo della “fiducia politica” con Bruxelles alla luce dei “vasti cambiamenti geopolitici, della stretta sull’Europa da parte degli Stati Uniti nella sua rivalità con la Cina, e della scarsità di scambi Cina-Ue”.

In realtà l’impressione è che ormai molti dei timori americani abbiano contagiato gli alleati sull’altra sponda dell’Atlantico. Non si tratta più solo di appelli a “una concorrenza più equa e più disciplinata”. Nel suo recente discorso sui rapporti Cina-Ue, von der Leyen ha accusato Pechino di voler mettere in atto “un cambiamento sistemico dell’ordine internazionale”. Non giovano le ritorsioni commerciali applicate ai paesi che – come la Lituania – osano mantenere stretti rapporti con Taiwan. Proprio a riguardo, lo scorso anno Bruxelles ha avanzato una controversia nei confronti della Cina presso l’Organizzazione mondiale del commercio, e solo pochi giorni fa Consiglio e Parlamento hanno approvato un testo comune per uno strumento anti-coercizione, citando l’esempio di Vilnius. Considerato il clima, è irrealistico pensare a uno scongelamento dell’accordo di investimento bilaterale tenuto in ostaggio a Strasburgo. Von der Leyen è stata chiara a riguardo.

Pechino non ha nascosto lo scarso entusiasmo con cui – su insistenza di Macron – “ha concordato” che la presidente della Commissione fosse inclusa nel tour, anziché accoglierla “su invito del presidente Xi Jinping” come nel caso del capo dell’Eliseo. Nel gioco delle parti, il duo tenterà di fare muro almeno su quei dossier, come l’Ucraina, dove pare esserci piena intesa: la Cina può e deve fare di più per fermare l’invasione russa. Insomma, per Pechino le premesse non sono esaltanti, e persino in Cina c’è chi lo ammette a denti stretti. Nella giornata di martedì, Zichen Wang, analista del think tank Center for China and Globalization molto attivo su Twitter, aveva espresso serie perplessità sul futuro dei rapporti con il blocco dei 27, sminuendo il significato della trasferta dei due leader europei. Il commento è stato cancellato solo poche ore dopo.

Aggiornato da Redazione Web il 6 aprile alle ore 15.24

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