La riunione si è svolta in un luogo molto isolato, il villaggio finlandese di Inari, in Lapponia. Periodicamente la Banca centrale europea si sposta nei vari paesi euro per tenere alcuni dei suoi meeting che abitualmente si svolgono a Francoforte. E tutto sommato, visto l’argomento molto difficile da maneggiare, trovarsi un po’ fuori dai radar questa volta ha forse fatto anche comodo. Gli esperti della Banca centrale europea si sono infatti riuniti per approfondire studi e valutazioni sulle dinamiche inflazionistiche della zona euro. L’ultimo dato relativo a febbraio ha evidenziato un carovita ancora all’8,5% con un’inflazione che ha sì smesso di crescere ma che, per ora, fatica molto a scendere. E quindi Francoforte tira dritto sulla linea dura: altri aumenti dei tassi di interesse, costo del denaro più caro e sabbia negli ingranaggi del motore della crescita economica. Diversi esponenti della Bce, con il governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco in prima linea , si sono ripetutamente espressi contro un aumento generalizzato dei salari, nonostante la grave perdita di potere d’acquisto dei lavoratori italiani, già tra i più poveri dell’area euro. Buste paga un poco più corpose, secondo Visco, causerebbero inevitabilmente una “spirale inflazionistica”.

Eppure, secondo quanto riporta l’agenzia Reuters, il quadro che è emerso dalla sessione finlandese raccolta un’altra realtà. Sinora gli economisti hanno sostenuto che gli aumenti di prezzi di materie prime, componenti e semilavorati, dall’energia al cibo ai chip per computer, si sono traslati in un aumento dei costi per le imprese. Ma, a quanto pare, l’incremento dei prezzi finali sarebbe stato ben superiore a quello dei costi. Così ricavi e profitti aziendali salgono oltre misura, a scapito dei consumatori che, per di più, si vedono negata la possibilità di chiedere aumenti perché questo favorirebbe l’inflazione che però non dipende da loro. Secondo dati utilizzati nello studio e raccolti da Refinitiv, nel 2022 la aziende di beni di consumo della zona euro hanno aumentato i margini operativi (la differenza tra ricavi e costi di produzione) in media del 10,7% . Le grandi imprese monitorate sono state 106 inclusi gruppi come Stellantis, al gruppo di beni di lusso Hermes, e al rivenditore nordico Stockmann. E sono loro, secondo quanto risulta dagli studi Bce (che però non commenta ufficialmente queste conclusioni), ad aver spinto al rialzo prezzi e infiammato l’inflazione.

I dati statistici mostrano anche come, viceversa, i salari siano cresciuti molto più lentamente dell’inflazione con una perdita del valore effettivo degli stipendi in media del 5% rispetto al al 2021. Eppure i salari sono stati menzionati ben 14 volte nell’ultima conferenza stampa della presidente della Bce Christine Lagarde , mentre i profitti aziendali non sono mai stati menzionati. Il vice presidente Luis de Guindos, ha anche avvertito che la Bce deve essere vigile perché i sindacati potrebbero richiedere aumenti salariali eccessivi. L’approccio dei vertici, ricorda Reuters, sta provocando forti malumori anche all’interno della banca centrale i cui dipendenti hanno chiesto un adeguamento dei salari all’inflazione che per ora non è arrivato. Un “niet” che ha spinto gli addetti della Bce a parlare di un pregiudizio anti lavoratori della banca centrale brandendo studi del Fondo monetario internazionale da cui emerge che l’incremento dei salari raramente porta ad aumenti dell’inflazione.

“È chiaro che l’espansione degli utili ha svolto un ruolo importante nell’andamento dell’inflazione europea negli ultimi sei mesi circa”, ha detto a Reuters Paul Donovan, capo economista di UBS Global Wealth Management. “La Bce farebbe fatica a giustificare la sua politica monetaria in un quadro in cui l’inflazione dipende soprattutto dai listini delle imprese”, aggiunge. L’inflazione alimentata da margini aziendali più elevati tende infatti ad autocorreggersi poiché le alla fine le imprese sono costrette a porsi un limite per non perdere consumatori. Dunque la stretta sui tassi da parte della Bce sarebbe per lo più superflua, un “dolore” inflitto all’economia senza nessun beneficio. Le valutazioni formulate in Finlandia potrebbero quindi fornire qualche munizione in più alle cosiddette “colombe”, ovvero i membri del consiglio direttivo della Bce meno propensi ad alzare ancora il costo del denaro nell’area euro.

Negli Stati Uniti, dove l’inflazione è al 6,4% e la banca centrale ha avviato una stretta monetaria in anticipo sulla Bce, circa un anno fa, il tema è dibattuto da tempo e in modo più aperto.A porre la questione è stata da ultimo la senatrice democratica Elizabeth Warren.

In passato l’economista ed ex consulente economico della Casa Bianca Robert Reich aveva esplicitamente parlato di un’ “inflazione dei prezzi da profitto” in cui i prezzi sono spinti verso l’alto
dalle società che cercano maggiori guadagni approfittando della situazione. Spunti per ora non raccolti dalla fed che persegue una linea di politica monetaria estremamente ortodossa e fedele ai dogmi della scuola monetarista. Secondo un’ analisi dell’Economic Policy Institute, citata da Reich, nelle società non finanziarie statunitensi, che rappresentano il 75% del settore privato, i prezzi post Covid sono cresciuti mediamente del 6,5% (contro un incremento media dell’1,8% negli anni 2007-2019) e per oltre la metà l’incremento è riconducibile ai profitti. Il costo del lavoro ha contribuito solo per un nono contro una media dei sei decimi nei dodici anni pre-Covid. Qualche voce ha iniziato a levarsi più di recente anche in Europa. Il governatore della banca centrale portoghese Mario Centeno ha sollevato la questione della corsa dei margini di profitto aziendali, affermando che dovrebbe essere inserito nell’agenda politica europea. Il membro italiano del board Bce Fabio Panetta ha rilevato come sinora i lavoratori abbiano sopportato il peso maggiore dell’impennata dei prezzi mentre i margini aziendali sono rimasti stabili, o addirittura aumentati in alcuni settori.

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