Esiste una via per sciogliere il nodo del bavaglio Cartabia, la norma che con la scusa di tutelare la presunzione d’innocenza sta mutilando il diritto di cronaca? Sì secondo Giulio Enea Vigevani, professore di Diritto costituzionale e dell’informazione all’Università Bicocca di Milano che è intervenuto al dibattito a Milano organizzato dall’Associazione lombarda giornalisti e dal Gruppo cronisti lombardi. Un confronto sulle conseguenze della legge sulla presunzione d’innocenza e sui rischi per la libertà di stampa in Italia. Va subito detto che l’esercizio del diritto di cronaca deve prevedere “giornalisti con la G maiuscola“, cioè preparati e scrupolosi, come ha spiegato il presidente vicario del Tribunale di Milano, Fabio Roia. Ma è altrettanto importante che i giornalisti non debbano essere “istigati a delinquere” nella ricerca di informazioni, come invece sta avvenendo a causa dell’ultimo effetto nefasto creato dalle norme introdotte da Marta Cartabia. Nelle scorse settimane ilfattoquotidiano.it ha raccontato il buco nero informativo creato dall’introduzione del decreto legislativo approvato dal governo di Mario Draghi, che alla fine del 2021 ha ratificato la direttiva Ue sulla presunzione d’innocenza.

Come funziona il bavaglio – Con la scusa di mettere un freno ai cosiddetti processi mediatici quella norma ha imposto una stretta a tutta l’informazione giudiziaria. In quel decreto, infatti, accanto a regole condivisibili (“la diffusione di informazioni sui procedimenti penali è consentita solo quando ricorrono rilevanti ragioni di interesse pubblico“), principi già sanciti in Costituzione (il diritto della persona indagata a non essere considerata colpevole fino a sentenza passata in giudicato) e norme quantomeno originali (il divieto di assegnare alle inchieste “denominazioni lesive della presunzione di innocenza”) c’è anche il divieto per pm e investigatori di parlare coi giornalisti: lo può fare solo il procuratore capo e solo con comunicati ufficiali. Che devono seguire stringentissimi paletti lessicali. Il risultato è che quei comunicati sono spesso vuoti: nessun nome di persona sottoposta e indagini e neanche i reati per cui si indaga. Ecco quindi che il decreto si trasforma in un bavaglio che distorce completamente le normali dinamiche della cronaca nera e giudiziaria, facendo scomparire i fatti dalle pagine dei giornali e violando il diritto ai cittadini a essere informati. Un esempio concreto? Dopo la chiusura dell’indagine sulla pandemia, la procura di Bergamo ha diffuso un surreale comunicato stampa di appena 21 righe, senza i reati ipotizzati e neanche i nomi delle persone indagate. E pazienza se a Bergamo sono finiti sotto inchiesta politici di rilievo nazionale, da Giuseppe Conte e Roberto Speranza, a Giulio Gallera e Attilio Fontana.

Il “male oscuro” –
Tutto in nome del diritto alla presunzione d’innocenza. “Un male oscuro” che diventa diritto tiranno e divora tutti gli altri diritti sanciti dalla Carta, secondo il professor Vigevani (a destra nella foto, ndr). Come molti altri addetti ai lavori, il docente sostiene che il decreto sulla presunzione d’innocenza violi l’articolo 21 della Costituzione. Sì, ma come si può arrivare a un giudizio davanti alla Consulta per dimostrare che questa norma non rispetta la Carta? “Oltre alla legittima protesta forse è il momento a seguire le vie giudiziarie che possono avere successo”, dice Vigevani che prova a battere tre strade diverse. La prima è quella che prende in considerazione il “bilanciamento dei vari diritti“. Il professore ricorda che esiste una lista di beni costituzionali in questo ambito, una ventina circa, che vanno dal diritto di informare ed essere informati, dalla corretta amministrazione della giustizia alla libertà delle persone, ma anche del controllo del potere giudiziario. “Da parte della stampa c’è un diritto a illuminare l’amministrazione della giustizia che fa parte della vita democratica” sottolinea.
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