Il decreto sulla “presunzione d’innocenza” varato dall’ex ministra Marta Cartabia sta prosciugando le fonti dell’informazione, rendendo difficilissimo – o addirittura impossibile – il lavoro dei cronisti di nera e giudiziaria. Ma al momento di discuterlo in Parlamento, chi rappresenta quei lavoratori ha scelto di non intervenire per cercare di modificarlo. Siamo a settembre 2021 e le Commissioni Giustizia di Camera e Senato – che stanno esaminando lo schema di decreto legislativo, approvato un mese prima dal Consiglio dei ministri – convocano in audizione l’allora presidente dell’Ordine dei giornalisti, Carlo Verna, e l’allora segretario della Federazione nazionale della stampa (il maggiore sindacato di categoria), Raffaele Lorusso. Che però non si presentano, sostenendo di non aver avuto tempo di prepararsi. “Non siamo soliti improvvisare su temi così importanti. Le convocazioni devono essere fatte nei tempi tali da consentire una discussione democratica”, si giustificherà Verna al Fatto. Eppure della questione si discuteva almeno da sei mesi, cioè dal marzo precedente, quando era stata approvata la delega al governo (grazie a un emendamento di Enrico Costa di Azione). Ma il numero uno dell’Ordine non ne sapeva nulla: “Ho appreso che questa cosa era in una fase avanzata quando sono stato convocato”, spiegava. Anche il segretario Fnsi Lorusso tirava in ballo altri impegni: “Siamo pieni di vertenze, non abbiamo avuto modo di approfondire il tema con i legali”.

Così, mentre i magistrati in audizione già avvertono sui rischi di censura, la voce dei giornalisti non entra nemmeno nel dibattito. Il parere favorevole al decreto passa all’unanimità in Commissione il 20 ottobre (a votare contro solo gli ex M5s di Alternativa): il 4 novembre il testo diventa legge con l’approvazione definitiva in Cdm. E tre giorni dopo arriva una presa di posizione durissima da parte del procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri: “Continueremo a parlare e a spiegare all’opinione pubblica, che ne ha diritto. Ancora in Italia non è stato negato il diritto di informazione della stampa”, afferma. Criticando anche l’ignavia degli organi di rappresentanza dei giornalisti: “L’unica cosa che mi dispiace è che ho visto la categoria dei giornalisti, a livello nazionale e locale, molto timida nella protesta, quasi vi andassero bene queste direttive. Credetemi, mi ha meravigliato non poco questo atteggiamento timido”. Un atteggiamento che a dire la verità cambierà nei mesi successivi, già a partire da dicembre, quando il nuovo presidente dell’Ordine Carlo Bartoli scrive a Csm e Cassazione auspicando un “intervento urgente finalizzato a evitare il rischio che possa calare il silenzio sulle inchieste, magari proprio quelle a carico di personaggi importanti” e denunciando “il rischio di pericolosi bavagli“. Ma a quel punto i buoi sono già scappati.

A livello locale, però, c’è chi si avvertiva del pericolo fin dall’inizio. In particolare a Milano, la città dove si concentrano il maggior numero di testate in Italia. “È una battaglia che è partita da qui, anche quando Odg e Fnsi nazionali non se ne occupavano”, racconta Cesare Giuzzi del Corriere, a lungo presidente del Gruppo cronisti lombardi. “Siamo convinti che il decreto sia incostituzionale, perché il contrasto con la tutela del diritto all’informazione, e vorremmo arrivare a farlo dichiarare tale. Il problema è soprattutto la discrezionalità: ci sono procuratori che hanno una visione giornalistica, altri che non ci vogliono proprio entrare e dicono: “Ma perché io mi devo dannare l’anima?”. Sembra assurdo, ma è così. Con l’Odg della Lombardia abbiamo formato una commissione composta da giornalisti, avvocati e giuristi tra cui Gherardo Colombo, che ha prodotto un documento con alcune proposte specifiche, per capire se è possibile almeno dare un’interpretazione diversa e univoca. Un esempio? Se la magistratura non parla più, allora parlino gli atti: dateci la libertà di accesso a quelli pubblicabili, come le ordinanze cautelari. Su questo però c’è stata una resistenza fortissima da parte degli avvocati, convinti che in quei documenti ci sia solo il punto di vista delle Procure”.

Nel documento pubblicato lo scorso 20 dicembre, però, la Commissione formata dall’Odg lombardo mette in guardia anche dal rischio contrario: con le nuove norme, si legge, “l’informazione sulle indagini corre il rischio di essere abbandonata solo ad alcune fonti private, rendendo di fatto impossibile per il giornalista la ricerca di riscontri dalla parte pubblica del procedimento penale. Privi degli strumenti per ristabilire un equilibrio tra le diverse parti del processo, i giornalisti potrebbero essere costretti a dare una versione fortemente parziale“. E qusto perché “non riuscire a rispondere alle esigenze di rapidità dei giornalisti nel dare ma anche nel verificare le notizie, significa esporli a quella che è stata chiamata, con immagini forti ma efficaci, un’”istigazione a delinquere” e a invitarli a far ricorso al “mercato nero della notizia”. (…) Al momento, e in attesa di una necessaria correzione delle norme, solo la loro concreta interpretazione da parte delle singole Procure può allora impedire conseguenze indesiderate e indesiderabili”, sostiene la Commissione. Fino adesso, invece, “la tendenza da parte delle Procure è stata quella di un’applicazione troppo rigida delle norme che ha portato di fatto a individuare nella segretezza – la mancata divulgazione dei nomi, per esempio – la tutela della presunzione di innocenza, senza tener conto dell’interesse pubblico alla trasparenza delle indagini”.

Ecco allora le proposte per garantire il diritto di cronaca: “È auspicabile che l’interpretazione delle norme tenga conto del principio generale della trasparenza dell’attività delle Procure e, più in generale, di ogni autorità giudiziaria e pubblica”, che è “una componente fondamentale dello stato di diritto“, come recita il Parere del Consiglio consultivo dei Procuratori europei (Ccpe) sui rapporti tra il pubblico ministero e i mezzi di informazione. Un documento in cui si legge peraltro che “le forze dell’ordine e il pubblico ministero possono, informando i media sui procedimenti in corso, ottenere informazioni dal pubblico, aumentando così l’efficacia del sistema di giustizia”. Le comunicazioni, poi, dovrebbero essere in ogni caso complete: anche perché è la stessa Procura generale della Cassazione, nei suoi orientamenti in materia di comunicazione, a dire che l’informazione non va “abbandonata alla disponibilità delle parti private”, cioè gli avvocati, “per le quali non è invece posto alcun obbligo di rispetto di canoni seppur minimi di correttezza”. D’altra parte è ovvio: se i magistrati non comunicano più, restano solo i difensori, che legittimamente lavorano per gli interessi dei propri clienti. Per questo, aggiunge il documento, “è auspicabile che sia garantita la possibilità di verificare le informazioni raccolte da altre fonti, anche allo scopo di rettificare eventuali false informazioni”. E soprattutto “è auspicabile che siano resi disponibili tutti gli atti depositati (e non secretati)”.

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