Si sa, noi viviamo e ci comportiamo come se le risorse sulla Terra fossero infinite. Quando iniziò la guerra tra Russia e Ucraina vi ricordate quanti articoli sulla necessità di risparmiare energia elettrica e soprattutto gas? Adesso chi se ne ricorda più: sono tornati magicamente infiniti. Oggi c’è il dilemma della siccità, eppure nessuno che parli della necessità di risparmiare, ma semmai solo di costruire per trattenere la risorsa.

Allo stesso modo ci si comporta con i beni materiali (prodotti) da noi creati che siamo coscienti debbano diventare rifiuti in breve tempo. Anzi, con questi ci comportiamo ancor peggio perché siamo coscienti che questi sì che sono a termine, ma semplicemente perché vengono sostituiti da altri beni, magari più moderni, in una corsa continua all’utilizzo di risorse. Ma, peggio ancora, spesso di questi beni è già decretata una fine certa nel momento in cui vengono immessi sul mercato.

O, peggio del peggio, non conviene ripararli perché la riparazione costa più del riacquisto del prodotto. Eppure, fino a poche decine di anni addietro non era così: quanto durava una lavatrice? Tanto se era italiana, ancor di più se era tedesca. E se c’era un componente rotto trovavi l’artigiano che te lo riparava. E l’automobile era composta di mille pezzi distinti che potevi sostituire singolarmente, mentre oggi devi sostituire un intero complesso di parti collegate tra loro con conseguenti costi. Esisteva persino la figura della cucitrice che riparava anche le calze smagliate.

Non parliamo dei ciabattini. Insomma narriamo di un mondo attento a non sprecare, pur senza avere alcuna cultura ecologica. E oggi che essa c’è (o meglio, ci dovrebbe essere) e che le risorse sono infinitamente meno di allora, ci comportiamo invece come se tutto fosse infinito.

Non è perciò un caso che Serge Latouche sostenitore che la decrescita abbia dedicato un saggio alla follia dell’obsolescenza programmata. E io stesso, nel mio piccolo, vi dedicai due post in passato. Nell’ultimo parlavo di tre iniziative di legge che giacevano in Parlamento in cui si cercava di contrastare questo enorme spreco estendendo la durata della garanzia, la disponibilità di pezzi di ricambio e il costo contenuto delle riparazioni.

Era il 2017 e non se ne è fatto nulla: hanno cose più importanti cui pensare. Parlavo altresì della Commissione Europea che ci stava pensando a una norma ad hoc. Ed è notizia di questi giorni (trascorsi appunto sei anni) che starebbe per essere varata una direttiva in materia. Nelle intenzioni di Bruxelles la garanzia dei prodotti verrebbe estesa a cinque/dieci anni e verrebbe facilitato l’accesso alla riparazione del bene guasto a prezzi accessibili.

Forse nella capitale belga si è sensibili al fatto che il 77% dei consumatori della Ue preferirebbe aggiustare i prodotti rotti anziché comprarne di nuovi. Nel contempo, sempre l’Ue, pensa a una stretta sul greenwashing. La direttiva vorrebbe che chi definisce il proprio prodotto “verde” o “eco” o “bio” dimostrasse nell’etichetta la veridicità della sua affermazione.

Chissà se questo varrà anche per quei prodotti che si autodefiniscono sostenibili: quante volte vediamo la scritta “prodotto da agricoltura sostenibile” e noi a chiederci cosa diavolo significhi? Dopo anni di latitanza e ritardi inspiegabili, dunque l’Unione Europea pare accorgersi di queste problematiche e sta per legiferare in merito. Quando vedranno la luce le direttive? Quanto stringenti saranno? E quanto tempo avranno gli Stati per adeguarsi?

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