Negli anni 90, fra i desideri più gettonati dei giovanissimi adolescenti c’era quello di divenire “calciatore e velina”. Un’immagine simbolica di questi due personaggi pubblici che, oggi, potrebbero essere anche un campione di tennis o altro sport e una modella o influencer. Cosa ha portato una parte considerevole delle nuove generazioni a desiderare di diventare questi personaggi? In un mio recente libro dal titolo Intelligenza del desiderio provo a spiegarlo. Il meccanismo del consumismo esasperato ha selezionato queste figure emblematiche in quanto dotate di caratteristiche che li fanno divenire i consumatori ideali: giovinezza, fama, ricchezza e, spesso, scarsa cultura. Si tratta di un mix ideale, in quanto la giovinezza porta a una fisiologica, rilevante istintività, con tendenza ad avere voglie subitanee che poi passano.

La fama provoca la sensazione di essere al centro del mondo per un periodo della propria vita, con il bisogno di ricercarne sempre di più con tutti i mezzi, come se fosse uno stupefacente: studi di neurobiologia affermano che si tratta proprio di qualcosa simile alla droga nei suoi effetti. La ricchezza è il presupposto per soddisfare le voglie attraverso acquisti di oggetti per essere al centro dell’attenzione dei media. La scarsa cultura legata, di solito, al fatto che ci si è dovuti impegnare a fondo per sfondare nello sport o nella società dell’immagine permette di non riflettere troppo.

Una recente storia d’amore, finita sui giornali, pare emblematica di questo modello sociale, tanto che invece di parlare delle emozioni e delle sofferenze inerenti alla separazione si parla degli oggetti che i due protagonisti avevano acquistato e che si contendono e dei nuovi partner che rappresentano la rivincita adolescenziale: se lui la rottama per una più giovane lei risponde con uno più ricco. Non conosco i personaggi reali che, presumibilmente, avranno vissuto malesseri interiori, acuiti dalla inevitabile sofferenza dei figli, ma mi riferisco all’immagine stereotipata e farsesca che ne hanno dato i giornali per mesi.

Perché il meccanismo pubblicitario/consumistico mette nella mente dei giovanissimi (10-16 anni) questi modelli? Perché gli adolescenti, sentendosi frustrati in quanto difficilmente conformi al modello proposto (non è facile diventare un influencer), cercheranno di riempiere il vuoto che sentono dentro acquistando oggetti. I poveri disperati genitori si faranno in quattro per accontentare i loro pargoli sofferenti dando i soldi per le scarpe, i vestiti e gli accessori indossati dai beniamini dei figli. Anche i meno abbienti sono disposti a fare rilevanti sacrifici, pur di accontentare questi ‘figli unici’. Stanno avvenendo sotto i nostri occhi fenomeni sociali immani: milioni di giovani con disturbi alimentari, milioni di hikikomori (ragazzi che non studiano e non lavorano, ma stanno in casa senza contatti sociali) e altri milioni di ragazzini che si tagliano e soffrono di depressione.

Ci accaloriamo tanto e giustamente per l’inquinamento atmosferico e ambientale e non ci rendiamo conto, perché avviene subdolamente, dell’inquinamento nei cervelli dei nostri figli che si accumula giorno dopo giorno. Tutto continua a scorrere, anche se milioni di ragazzi soffrono perché si ritiene che non si possa mettere un freno al consumismo e al meccanismo pubblicitario che lo alimenta. La pubblicità, come esprime la parola, significa rendere pubblico il fatto che qualcuno ha disponibile un prodotto. Ha una finalità positiva, in quanto permette al consumatore di fare una scelta e trovare qualcosa che gli serve. Nel momento che si utilizzano meccanismi subdoli di natura psicologica diviene un inquinante del cervello. Gli psicologi dovrebbero fare mea culpa in quanto hanno favorito questa deriva fornendo ai pubblicitari gli strumenti per la manipolazione mentale.

Tanto più le menti sono giovani e immature, tanto più certi meccanismi nascosti si impongono creando una sorta di dipendenza. Così viene alimentato il circuito del denaro. Come affermavano Gilles Deleuze e Fèlix Guattari, il giovane adolescente viene indotto a divenire una “macchina desiderante” perennemente insoddisfatto, in modo che il bisogno di riempiere con oggetti la sua vita sia infinito. I desideri a lungo termine che danno un senso all’esistenza rimangono sfumati; lasciano il posto a voglie momentanee che si accavallano, per poi dare spazio ad altre voglie, in un turbinio di insoddisfazione, alternata a momentanee piccole contentezze.

Articolo Precedente

Bologna, uniformare la toponomastica per me significa rinunciare a capire

next
Articolo Successivo

Bice Biagi ci chiese di non abbassare mai la guardia: cercheremo di non deluderla

next