“Sono stupidamente troppo luminose per non essere notate!” Questo il commento di un esperto del settore, Rohan Nidu, astronomo al MIT-Massachusetts Institute of Technology, nel guardare le foto scattate dal James Webb Space Telescope (JWST) a partire da luglio dello scorso anno. Il guardone spaziale JWST, prezzolato dalle agenzie spaziali americana, canadese ed europea, sta facendo un ottimo lavoro nel riprendere la storia del nostro Universo.

Uno dei suoi ultimi elaborati, pubblicato da Nature il 22 febbraio scorso, ci riporta indietro nel tempo di circa circa 13 miliardi di anni, più o meno tra 300 e 700 milioni di anni dopo il Big Bang. Mostra le immagini di tredici galassie, sei delle quali particolarmente massicce. Ovvero di grande massa. A dire il vero, in foto non fanno un grande effetto. Piccoli punti sfocati rossastri su sfondo nero. Impossibile distinguere le stelle al loro interno, o anche la loro forma a spirale o ellittica. Troppo lontane, ma l’intensità e i colori dei punti permettono di determinare distanza e massa di questi oggetti.

Breve spiegazione. Non essendo l’Universo fisso, queste galassie si allontanano da noi e la loro luce cambia colore, come il suono del fischio di un treno, che sentiamo più grave quando si allontana, dopo averci superato. Gli astronomi calcolano quindi le differenze fra spettro teorico con quello ricevuto, per dedurne la distanza. Più precisamente, si basano su due particolari firme di colore, una legata a stelle giovani e l’altra a stelle più vecchie. Per la massa si utilizza l’intensità luminosa ricevuta, associata a modelli che collegano massa e luminosità. Se è presente un carattere “più rosso” allora si ha a che fare con grandi galassie.

Torniamo alle foto del telescopio Webb. L’evento degno di nota non è la distanza delle tredici galassie di cui sopra, il Webb “vede” anche più lontano, ma la loro massa. Sei delle tredici galassie rilevate superano la massa di 10 miliardi di Soli, una supera addirittura i 100 miliardi, il che la avvicina alla nostra Via Lattea. Teoricamente non dovrebbero esistere. All’inizio della storia dell’Universo, non ci sarebbe stata abbastanza materia per formare e accendere così tante stelle. La Via Lattea, ad esempio, è trenta volte più compatta ed è, in confronto, giovanissima: esiste da appena una decina di miliardi di anni. Fino ad ora, oggetti di queste dimensioni erano stati visti solo dopo il primo miliardo di anni dopo il Big Bang. Vero che il modo di stimare la massa e la distanza di queste galassie introduce non poca incertezza, ma qualcosa non torna. Il team stesso è comunque cauto. Parla di galassie “candidate” e non di galassie “rilevate”.

A riprova di queste difficoltà, tra la prepubblicazione di luglio e quella di dicembre 2023, sottoposta a Nature, le cose sono cambiate. Il 22 luglio, la fascia di età delle galassie era compresa tra 400 e 700 milioni di anni e due di esse avevano massa maggiore di di 100 miliardi di soli. Cinque mesi dopo, le “più giovani” erano invecchiate di cento milioni di anni e una era dimagrita dieci volte. Dieta molto efficace grazie all’affinamento dei risultati, ma qualcosa non torna.

Possibili ipotesi: “Possiamo anche pensare che i modelli che mettono in relazione la massa con la luminosità non siano corretti. In tali galassie potrebbero formarsi stelle molto grandi e molto luminose, ma con poca massa, il che modificherebbe il modo in cui stimiamo la massa totale”, suggerisce Françoise Combes, docente al Collège de France.

Altra ipotesi: la forte luminosità potrebbe essere legata alla presenza di un buco nero massiccio, al centro di queste galassie, che farebbe irraggiare fortemente i gas che vi cadono sopra, evocando una firma analoga a quella delle stelle. Questi falsari sono oggetti già noti, chiamati quasar. “Gli indizi mostrano che almeno uno dei nostri tredici candidati potrebbe essere un quasar, osserva Ivo Labbé, della Swinburne University of Technology a Melbourne, Australia, fra gli autori della ricerca pubblicata da Nature, “ma i quasar sono rari, quindi sarebbe improbabile che tutte le nostre galassie siano quasar. Se ne venisse confermata anche una sola sarebbe già una scoperta, perché la teoria prevede che non ce ne dovrebbero essere”.

Ultima possibilità, suggerita da Ivo Labbé: “Se solo uno di questi candidati viene confermato, allora il modo in cui pensiamo alla formazione delle galassie dovrà essere rivisto. Ciò significherebbe che esiste una scorciatoia per realizzare questi mostri, molto rapidamente e in modo molto efficiente”. Il che implica rivedere il modello standard che descrive l’intero Universo, dal Big Bang ai giorni nostri. Secondo il modello, le grandi galassie nascono da quelle più piccole, il che richiede tempo. I mostri rilevati, per giunta in gran numero, non possono esistere. Da notare che il modello standard viene periodicamente messo in discussione, semplicemente perché non spiega tutto. Il problema principale è che il modello prevede la misteriosa cosiddetta materia scura. Non sappiamo cosa sia, o di cosa sia fatta, ma sembra indispensabile per la stabilità dell’Universo.

Breve sintesi di cosa i cosmologi sanno, o credono di sapere, dell’Universo. Dopo il Big Bang, il neonato Universo inizia raffreddarsi. In pochi milioni di anni, il turbolento gas di plasma che riempie lo spazio si calma. Elettroni, protoni e neutroni si combinano fra loro formando atomi, in prevalenza idrogeno. Le cose rimangono tranquille e nel buio più totale per un periodo di cui non si conosce la durata: l’era dell’universo oscuro. Quindi qualcosa accade.

La maggior parte del materiale di risulta dal Big Bang è qualcosa che non sappiamo cosa sia e che non siamo in grado di vedere. Battezzata “materia scura”, per l’appunto, influenza in modo molto importante l’universo, in particolare al suo inizio. Secondo il modello standard, della materia scura fredda (particelle invisibili che si muovono lentamente) è presente nel cosmo, in modo disordinato. In certe aree, dove la sua densità è maggiore, inizia a collassare, formando dei “grumi”. La materia visibile, ovvero gli atomi, si aggrega intorno a questi grumi. Quando anche gli atomi si raffreddano a sufficienza, condensano, in modo sempre più compatto, fino a innescare il processo di fusione nucleare. Le prime stelle vedono -letteralmente- la luce. Fu la luce.

Queste nuove fonti di radiazione, di energia, “ricaricano” gli atomi di idrogeno, ionizzandoli da neutri che sono. Poi, l’onnipresente forza di gravità avvia e sostiene il processo di crescita di strutture sempre più complesse, vero architetto della cosmica rete di galassie che osserviamo oggi.

Nel frattempo, l’universo continua a espandersi, come rilevato da Edwin Hubble, astronomo statunitense, negli anni 1920. A fine anni 1990 il telescopio cui venne dato il suo nome, lo Hubble Space Telescope, raccoglie le prove che l’espansione sta accelerando in un modo che sfida l’attrazione gravitazionale. Questa accelerazione sembra essere alimentata dall’energia repulsiva dello spazio stesso. La si è chiamata energia scura, rappresentata con Λ , la lettera greca lambda.

Se si inseriscono i valori della materia scura, di quella visibile e di quella radiattiva nelle equazioni della relatività generale di Einstein si ottiene il modello di come evolve l’Universo. Viene chiamato modello ΛCDM (Lambda Cold Dark Matter) ed è in grado di spiegare tute le osservazioni cosmologiche. Non male per un modello. Attenti però, è solo un modello. Vero fino a che non si dimostra che è falso.

[Foto in evidenza, credits: NASA, ESA, CSA, STScI]

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