Torno verso casa che è ormai notte fonda e intanto penso a quello che è successo a Roma. Dove si è vinta una scommessa e anche se solo per il tempo di una sera si sono dilatati i confini di una città. La luce rossa del semaforo mi impone di frenare. Mi fermo e torno indietro di un paio di ore.

Teatro Tor Bella Monaca, tra meno di venti minuti andranno in scena gli Eretici, una galleria di personaggi che hanno detto No al pensiero unico e all’indifferenza, manco avessero saputo quanto sarebbero stati attuali in questi giorni. Tomaso Montanari, e già non servirebbe aggiungere altro, insieme a due fuoriclasse che fanno da contraltare: Daniela Morozzi, attrice di teatro, cinema e televisione e Stefano ‘Cocco’ Cantini, sassofonista noto a livello internazionale. Voce, interpretazione e musica.

Gli ingredienti ci sono e tutto questo accade qui, in lembo di terra che è una contraddizione in termini, a partire dal nome. Perché Tor Bella Monaca non è bella, ma è guerriera. Proprio come la Lucia di Manzoni. Eterno capro espiatorio per giustificare la difficoltà di un riscatto frenato dalle azioni, che però tiene duro nelle intenzioni.

E’ un terreno arido che non viene irrigato, ma nel quale a ogni ciclo qualcuno semina.

Stasera tocca a Montanari.

Provocatoriamente lo metto in sfida con l’autore del volume Periferia. Abitare Tor Bella Monaca. L’urbanista Carlo Cellamare, insieme a Francesco Montillo, si era dato come compito la più difficile delle ristrutturazioni: quella che parte dallo smantellamento dei luoghi comuni. E comincia a livello lessicale, da quella privazione di una preposizione che garantirebbe uno stato in luogo, e quindi una permanenza dello stato del luogo. Non è infatti Abitare a Tor Bella Monaca, ma abitarla, abitare lei, possederla, renderla fertile, attivarla. Non è passività, è coinvolgimento.

Un’impresa che – diversi i modi, stessa la visione – pulsa nel Rif, il Museo delle periferie, il primo “museo fuori dal Grande Raccordo Anulare”, quello che nelle parole di Giorgio de Finis, che lo ha ideato e lo dirige, nutre l’obiettivo di allargare i confini della città.

Eretici come la abiterà, Tor Bella Monaca? E i suoi confini si dilateranno o no, questa sera? Tutte domande che mi faccio.

Intanto la macchina, freccia a destra, e rallentando, entra nel parcheggio di un teatro che ha fatto il sold out mentre sullo sfondo si stagliano grattacieli di vite incasellate in alveari senza logica. Alla bellezza devono avere diritto tutti, esterno a voce alta, pensando che non è possibile che chi ha ideato quei palazzi non aveva in sé il potere di realizzare edifici migliori.

La fila al botteghino viene smaltita rapidamente, uno dopo l’altro ci si avvia a prendere posto in sala. C’è soddisfazione, avrebbe detto pochi minuti dopo, nell’introduzione uno dei responsabili del Teatro: è sold out anche la sala piccola, con una compagnia giovane.

Cominciamo. La luce si spegne e prende vita la cornice che incastona la galleria di eretici (Virginia Woolf, Caravaggio, Rosa Luxemburg…) che hanno sfidato la sorte e i loro tempi. Mentre un rosario laico di coraggiosi viene snocciolato lettura dopo lettura, spiegazione dopo spiegazione, nota dopo nota, avverto che in quel teatro si sta muovendo qualcosa che è troppo presto capire subito.

Montanari ha posto un altro seme in un terreno da irrigare a tutti i costi. Tra rispetto per la storia, ironia e puntute sferzate a chi le merita, dal palco vengono gettate le fondamenta di un altro spazio possibile: il riscatto del non luogo in cui la geografia si dilata e diventa centralità. Il professore saggista sta invitando a edificare il pensiero del NO, che è necessario e lo è adesso.

Ciò che non siamo, ciò che non vogliamo è più che mai, l’insegnamento da portarsi via e da coccolare. Anche se Montale non verrà mai nominato.

Al centro di tutto c’è la scuola, il piede perno attorno al quale viene incernierato l’edificio della cultura, che è sempre rielaborazione umana. I fatti di Firenze, e non solo, impongono dal palco e in sala una riflessione che si fa altalena nel tempo, tra Don Milani, una Preside e Valditara. E tu perdi la bussola nel capire chi abiti il passato remoto, remotissimo, e chi invece sia il visionario aperto al futuro.

Scruto di soppiatto lo sguardo di chi mi sta intorno: siamo in periferia e per un tempo che è quello dello spettacolo Montanari riesce nella scommessa lanciata da altri. Attraverso questo caleidoscopio di riflessioni stiamo allargando i confini della città, stiamo abitando Tor Bella Monaca. Anzi no, stiamo abitando le città, l’Italia, l’Europa e il mondo.

Di più, di più. Stiamo abitando un tempo: che è quello che non può passare inosservato ai nostri occhi.

Una riflessione cupa mi passa da parte a parte: non è solo l’indifferenza il peggiore dei mali. Ma quello che si porta appresso: l’odio lo meritano anche l’oblio e l’adagiarsi nella garanzia della sicurezza: è qui che si rischia di tollerare un atteggiamento prevaricatorio che è anzitutto culturale. Il gas è pericoloso perché non lo avverti, ma si insinua. Il regime da noi non si insediò con i carri armati, ma infiltrandosi quando era in vigore lo Statuto albertino.

Via i pensieri negativi, caccio via tutto. E mi concentro su chi parla, anzi su chi dice. Anzi, dal piccolo della mia cameretta interiore mi rivolgo direttamente a lui.

Montanari, visto che questa sera la sfida la stai vincendo, adesso non mollare la presa perché in questo momento c’è bisogno di altre lezioni come queste. Se ne ha uno ogni tanto, di maestro al quale attingere. Fai uno sforzo ancora: perché tu sai meglio di noi, e Richard Sennet ce l’ha insegnato, che dopo averle costruite e abitate, le città vanno “aperte” e per farlo c’è bisogno di etica. Ovvero, di quella roba che è “vivere uno tra molti, coinvolto in un mondo che non rispecchia solo se stesso”. Non lo ha scritto anche Rosa Luxemburg in quella lettera sublime in cui tanto partecipa alla vita che le gira intorno che si fa essa stessa animale ferito, come il bisonte sanguinante che le sta davanti mentre lei, impotente, osserva la sua agonia? E’ il momento storico in cui ci si deve unire.

Mentre il teatro si svuota alla spicciolata e si allenta anche il momento dei saluti, il parcheggio vuoto mi appare illuminato e pieno di gente, sento i commenti, le riflessioni, le emozioni sono di tutti. E se non sto attenta rischio davvero di perdermi sulla via del ritorno, perché stasera qui si è andati oltre anche rispetto all’idea di confine. Si è parlato di frontiere, e mi pare – almeno per il tempo di una notte e di uno spettacolo – che fortunatamente si siano oltrepassate anche quelle.

Sbatto gli occhi, qualcuno suona il clacson, ritorno al presente. Il semaforo è verde da un pezzo, mi scuso subito, ma si è dilatato anche il tempo.

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