Papa Francesco non si dimetterà finché Benedetto XVI sarà vivo”. Questa convinzione ha alimentato i dibattiti nei sacri palazzi per quasi dieci anni, ovvero dall’elezione di Bergoglio alla morte di Ratzinger. Dopo la scomparsa del Papa emerito, il 31 dicembre 2022, il tema delle dimissioni di Francesco è tornato con forza nelle riflessioni curiali. Un argomento, a dire la verità, che era stato riproposto proprio da Bergoglio pochi giorni prima della morte del suo predecessore. Il Papa, infatti, aveva rivelato di aver firmato la sua rinuncia in caso di impedimento medico e di averla consegnata all’allora cardinale segretario di Stato, Tarcisio Bertone, pochi mesi dopo la sua elezione. Francesco, inoltre, aveva ricordato che anche Pio XII e san Paolo VI avevano firmato le proprie dimissioni in caso di impedimento.

“È vero – ha spiegato Bergoglio ai gesuiti nel suo recente viaggio in Africa – che io ho scritto le mie dimissioni due mesi dopo l’elezione e ho consegnato questa lettera al cardinale Bertone. Non so dove si trovi questa lettera. L’ho fatto nel caso che io abbia qualche problema di salute che mi impedisca di esercitare il mio ministero e di non essere pienamente cosciente per poter rinunciare. Questo però non vuol affatto dire che i papi dimissionari debbano diventare, diciamo così, una ‘moda’, una cosa normale. Benedetto ha avuto il coraggio di farlo perché non se la sentiva di andare avanti a causa della sua salute. Io per il momento non ho in agenda questo. Io credo che il ministero del Papa sia ad vitam. Non vedo la ragione per cui non debba essere così. Pensate che il ministero dei grandi patriarchi è sempre a vita. E la tradizione storica è importante. Se invece stiamo a sentire il ‘chiacchiericcio’, beh, allora bisognerebbe cambiare Papa ogni sei mesi!”.

Nel colloquio con i suoi confratelli pubblicato su La Civiltà Cattolica, Francesco ha risposto anche a chi gli chiedeva se stia pensando alle dimissioni: “No, non mi è passato per la mente. Ho però scritto una lettera e l’ho data al cardinale Bertone. Contiene le mie dimissioni nel caso non fossi nelle condizioni di salute e di consapevolezza per poter rinunciare. Anche Pio XII ha scritto una lettera di rinuncia nel caso che Hitler lo avesse portato in Germania. Così lui disse che avrebbero catturato Eugenio Pacelli e non il Papa”.

Dopo la morte di Benedetto XVI, all’interno del Collegio cardinalizio si è largamente diffusa la convinzione che il Papa emerito debba rimanere un’eccezione che nessuno si augura di rivedere in tempi brevi. Una posizione che è emersa con forza soprattutto tra i porporati più vicini a Ratzinger, oltre che tra i suoi collaboratori più stretti che tuttora non hanno accettato il suo storico passo indietro.

È molto significativo quanto ha scritto il cardinale Gerhard Ludwig Müller, prefetto emerito della Congregazione per la dottrina della fede oggi Dicastero e curatore dell’Opera omnia di Benedetto XVI. “La notizia delle dimissioni – afferma il porporato nel libro intervista In buona fede (Solferino) scritto con la vaticanista de Il Messaggero, Franca Giansoldati – sorprese anche me. Non me lo sarei mai aspettato e nemmeno ne avevo sentore. Fu il cardinale svizzero Kurt Koch, incontrato quel giorno per caso, a dirmi che il Papa avrebbe lasciato di lì a poco. In quel momento arrivavo da un lungo viaggio di lavoro negli Stati Uniti. Avevo sulle spalle quindici ore di volo, ero appena atterrato e avevo saltato la riunione del concistoro per la creazione dei nuovi santi. All’annuncio rimasi di stucco, non ci volevo credere. Non ci potevo credere. Il Papa si era confidato con pochissime persone e non con me e, a essere onesti, ci rimasi persino male”.

Müller ricorda che “era ovvio che formalmente poteva rinunciare, ma era altrettanto chiaro che il vero nodo da sciogliere riguardava (e ancora oggi riguarda) il dopo. Alla rinuncia un vescovo resta sempre nel Collegio, tuttavia il Papa non può essere considerato un vescovo qualsiasi: essendo vescovo di Roma e successore di Pietro – principio visibile e permanente dell’unità della Chiesa – la sua figura pone quesiti in gran parte irrisolti, con conseguenze pesanti e prospettive da chiarire. Oggi che abbiamo un Papa emerito e uno regnante in Vaticano la situazione percepita all’esterno, dalla gente comune, è che vi siano due papi, ognuno avente una sua propria sfera di influenza. Ma non può essere così, proprio per il carattere del ministerium petrino. Il principio dell’unità può realizzarsi solo in una sola persona. Eppure, nonostante i distinguo terminologici introdotti in questi anni, non si è riusciti a incidere sulla realtà percepita”.

“Possiamo analizzare – prosegue il cardinale – quello che si è venuto a creare. Benché la rinuncia sia stata formulata in modo corretto dal punto di vista canonico sono emersi col tempo i dilemmi identitari che la presenza del Papa emerito ha introdotto. Difficile ignorare le tante persone che nel mondo si identificano più con Benedetto XVI, con la sua teologia e il suo papato – anche se si è dimesso e non governa più – che con Francesco, un Pontefice che senza dubbio è assai differente per stile e personalità. Ed è proprio questo dualismo non codificato ad aver alimentato il disorientamento. Le dimissioni hanno introdotto un’incrinatura del principio petrino dell’unità della fede e della comunione della Chiesa che non ha eguali nella storia e non è ancora stata elaborata dogmaticamente. Le norme del diritto canonico non sono sufficienti. La coesistenza concreta è difficilmente gestibile per diverse ragioni. La questione andrà senza dubbio affrontata prima o poi perché il vulnus aperto potrebbe generare in futuro conseguenze imprevedibili”.

“Chiediamoci – aggiunge ancora il porporato – cosa potrebbe capitare se vi fossero più papi emeriti, visto che andiamo incontro a un’epoca in cui la longevità media si allunga sempre di più. Il Codice di diritto canonico contempla la possibilità di rinunciare liberamente, senza alcun tipo di costrizione. La rinuncia significa quindi andare in pensione? In questo caso il rischio per la Chiesa non è di trasformare la figura del Papa, equipararlo, se non ridurlo, a un funzionario statale? San Pietro non avrebbe mai immaginato, neppure lontanamente, di andare in pensione. Pietro e Paolo sono morti martirizzati. Il Codice, dunque, parla di rinuncia soltanto se vi sono situazioni estreme.

Possiamo ipotizzare malattie gravi o degenerative. Sappiamo che Pio XII aveva previsto le sue dimissioni e aveva già firmato una lettera se fosse stato catturato da Hitler durante la guerra. Ma il papato, di per sé, è testimonianza fino alla sofferenza personale, sull’esempio di Cristo che ha patito sulla croce contemplando la grazia divina. La figura del successore degli apostoli è associabile anche a un anziano fragile, magari su una sedia a rotelle, su una pedana mobile, come Giovanni Paolo II. Il Papa – conclude Müller – non può essere racchiuso solo nel cliché del Pontefice superman: splendente, vigoroso e perennemente in movimento. Come tutti gli uomini, con la vecchiaia, va incontro a incognite fisiche, a patologie a volte invalidanti. Anche per il Pontefice deve essere un esempio esteriore da offrire al mondo”.

Le parole del porporato richiamano alla memoria quelle pronunciate dal cardinale Stanislaw Dziwisz, arcivescovo emerito di Cracovia e precedentemente per 40 anni segretario particolare di Wojtyla, al momento delle dimissioni di Benedetto XVI: “Dalla croce non si scende”. È indubbio, infatti, come giustamente ha sottolineato Müller, che la sofferenza possa appartenere alla storia di un pontificato. Lo si è visto chiaramente con san Giovanni Paolo II che, nell’ultima parte del suo regno durato 27 anni, ha continuato a insegnare, ma questa volta dalla cattedra della sofferenza. Si è detto perfino che il Papa polacco ha scritto una vera e propria enciclica con la sua sofferenza: dall’attentato per mano di Ali Agca il 13 maggio 1981 in piazza San Pietro fino al Parkinson che ha segnato gli ultimi anni del suo pontificato.

La Chiesa cattolica non è ancora pronta per un papato a tempo e quindi per i papi emeriti. Lo si è visto chiaramente con lo scontro avvenuto tra bergogliani e ratzingeriani dopo la morte di Benedetto XVI. Le contraddizioni irrisolte scaturite dalla rinuncia di Ratzinger e da quasi dieci anni di convivenza con il suo successore sono tutte deflagrate improvvisamente e con estrema veemenza nel momento della scomparsa del primo Papa emerito del terzo millennio. Una morte che, come ha sottolineato Francesco, “è stata strumentalizzata da gente che vuole portare acqua al proprio mulino. E la gente che, in un modo o in un altro, strumentalizza una persona così brava, così di Dio, quasi direi un santo padre della Chiesa. Quella gente non ha etica ed è gente di partito, non di Chiesa”. Il segno eloquente che il dibattito sulla figura del Papa emerito è ancora aperto.

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