Volkswagen e Audi venderanno solo auto elettriche dal 2033, Renault e Psa dal 2030. Ma in un paese come l’Italia, storicamente dominato da Fiat, il passaggio definitivo all’elettrico non poteva che provocare sconquassi. La casa torinese, ora finita nell’impero Stellantis a trazione francese (con Psa), ha sempre guardato con distacco alla nuova motorizzazione e questa linea strategica si è ripercossa su tutta la filiera. Se a ciò si somma il grave ritardo del governo (accumulato soprattutto quando al ministero dello sviluppo economico c’era Giancarlo Giorgetti) nella gestione della transizione all’elettrico, si capisce il perché delle grida di dolore che hanno accompagnato il via libera definitivo (e scontato) di Bruxelles allo stop dal 2035 della vendita di vetture a benzina e diesel. Il ministro delle Imprese Adolfo Urso ammette che “L’Italia è in ritardo” e che dobbiamo “accelerare sugli investimenti” ma, aggiunge, i “tempi e modi che l’Europa ci impone non coincidono con la realtà europea e soprattutto italiana. Non possiamo affrontare la realtà con una visione ideologica e faziosa che sembra emergere dalle istituzioni europee”. Nel dibattito italiano continua ad essere drammaticamente carente la percezione della gravità della crisi ambientale in corso che richiede provvedimenti straordinari (e quindi, appunto, accelerazioni). Che poi questo si intrecci con innumerevoli fattori, anche politici, è fuori di dubbio, ma non giustifica il passo da lumaca con cui vorrebbe avanzare il nostro paese.

Questo non per dire che l’elettrico sia tutto rose e fiori, anzi. Ma ormai la spinta in questa direzione sembra ben oltre il punto di non ritorno come dimostrano anche i maxi incentivi varato dal governo statunitense per favorire l’acquisto di automobili a batteria e attrarre sul suo territorio le produzioni. Sarebbe quindi il caso di adeguarsi, in fretta, alla nuova realtà. Eppure mai come in questa occasione si sono sentiti i grandi gruppi automobilistici preoccuparsi per i livelli occupazionali. In teoria il passaggio all’elettrico che richiede meno mano d’opera perché le componenti sono meno e l’assemblaggio più semplice, dovrebbe tradursi in una discesa dei costi e quindi, a ricavi costanti, in un incremento dei profitti. Sorge spontaneo il sospetto che i posti di lavoro siano usati come leva per ottenere più aiuti dai governi.

Chi di occupazione si occupa davvero la vede ad esempio un po’ diversamente. “La decisione di Bruxelles non è niente di nuovo, un’altra tappa di un iter che era già avviato e noto. Il vero problema è il ritardo del nostro paese che non è stato sinora in grado di concepire una politica industriale per dare una collocazione all’Italia nel nuovo scenario della motorizzazione. È dal 2019 che chiediamo ai governi una maggiore attenzione su questo dossier”, spiega a Ilfattoquotidiano,it Simone Marinelli della Fiom Cgil. “Non dimentichiamo che in termini di occupazione e volumi abbiamo già dato, alla fine anni ’90 in Italia si producevano 2 milioni di vetture, oggi meno di un quarto. Tuttavia il know how è rimasto e su alcune produzioni qui c’è ancora il fiore all’occhiello a livello globale delle quattroruote. Se ben gestito il passaggio all’elettrico potrebbe quindi anzi essere l’occasione per un rilancio del settore”, ragiona il sindacalista.

“Siamo di fronte ad un ritardo strutturale”, conferma Francesco Zirpoli dell’università Cà Foscari di Venezia che spiega “Dipendiamo, unico paese in Europa, da un solo produttore che è Stellantis di cui non possiamo fare a meno, e la nostra classe politica, poco lungimirante, fatica a cogliere la portata della sfida ambientale in atto. Eppure, con i dovuti investimenti, l’Italia avrebbe buone carte da giocare”. Di pari passo con il passaggio a nuove motorizzazioni è da tempo in atto una ridefinizione dei modelli di business. Si costruiscono e si vendono meno auto che però costano di più, a tutto beneficio degli utili dei produttori. Se protratta questa tendenza rischia di riportarci a una situazione in cui l’auto è uno status symbol appannaggio delle classi più abbienti. Anche per questa ragione il passaggio all’elettrico non andrebbe maneggiato come qualcosa a sé stante ma inserito in un più ampio ripensamento della mobilità. “Mi aspetterei, afferma Zirpoli, che l’Europa si muovesse anche per adottare regole che favoriscano la costruzione di auto di minori dimensioni, che pesano meno e quindi con consumi e costi più bassi, come accade giù in Cina e in Giappone. Ciò permetterebbe di cogliere due obiettivi, ridurre il consumo di energia e rendere accessibile la mobilità a chi non può fare a meno dell’auto privata. Per gli altri va rafforzato il trasporto pubblico e condiviso”

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