Troppo facile fare i soldi così. Senza nulla togliere a manager strapagati, per le banche inanellare utili da record non sembra essere stata operazione particolarmente complicata. Gli interessi incassati su mutui e prestiti salgono, quelli pagati ai depositanti restano uguali (ossia non esistono) o addirittura scendono. E così per gli azionisti e per i dirigenti baciati dai bonus è festa grande. Unicredit ha chiuso il 2022 con il miglior risultato da oltre un decennio e annunciato la distribuzione ai soci di oltre 5 miliardi di euro. L’altro big italiano Intesa Sanpaolo parla del “miglior anno della nostra storia” dopo aver incamerato utili per 5,5 miliardi.

Sono tre le voci che portano ricavi nelle casse delle banche: commissioni, trading e intermediazione. La prima voce comprende quello che la banca fa pagare i clienti per gestirne e processarne le varie operazioni, da prelievi e bonifici ad altre più complesse. La seconda sono gli introiti generati dalla compravendita di titoli. La terza, la più importante, che conta in media per il 60% dei ricavi, sono i profitti che provengono dalla differenza tra gli interessi che la banca chiede per prestare soldi e quelli che paga a chi glieli presta, ossia per lo più famiglie che tengono i soldi sul conto.

Nell’ultimo decennio caratterizzato da tassi particolarmente bassi, a tenere a galla i conti delle banche sono state soprattutto le commissioni. Oppure, ancora più semplicemente, il denaro a costo zero messo a disposizione dalle banche centrali è stato investito in prodotti relativamente sicuri come i titoli di Stato. Il rendimento era basso, ma visto che il denaro era gratis era comunque un guadagno. Ora però il vento è girato, dallo scorso luglio la Banca centrale europea ha ricominciato ad alzare il costo del denaro. Le commissioni sono rimaste ma anche i ricavi da intermediazione hanno ripreso a salire. Tecnicamente il tasso che fissa la Bce riguarda prestiti tra le stesse banche ma, a cascata, si ripercuote su tutti i tipi di finanziamento. Nel processo “dalla banca centrale al consumatore”, gli incrementi dei tassi si moltiplicano e così quando sono più alti le banche hanno maggiori margini di guadagno. E gli interessi di mutui e prestiti si sono adeguati immediatamente. Per un mutuo variabile di importo medio la rata mensile è salita di quasi 200 euro.

La Banca d’Italia ha rilevato come in novembre (ossia prima degli ultimi aumenti della Bce) i tassi sui mutui per abitazioni comprensivi delle spese accessorie (Tasso Annuale Effettivo Globale, Taeg) sono saliti al 3,55%. Erano al 3,23% ad ottobre. Quelli sulle nuove erogazioni di credito al consumo si sono attestati, invece al 9,25% dall’8,93% del mese precedente. In salita sono anche gli interessi per i prestiti erogati alle aziende. “Nonostante il rallentamento ciclico, i principali indicatori dello stato di salute del sistema bancario italiano restano nel complesso positivi”, ha notato qualche giorno fa il governatore della banca d’Italia Ignazio Visco. “In presenza di un più rapido rialzo dei tassi attivi, l’aumento dei rendimenti di mercato favorisce le banche con operatività tradizionale, che gli scorsi anni avevano visto la loro redditività compressa dai bassi margini di interesse”. Qualcosa, poco, potrebbe forse cambiare con la progressiva fine delle operazioni di Tltro, con cui la Bce rifornisce le banche di liquidità a costo zero. In teoria perché poi destinino questi soldi all’economia reale, in pratica più che altro per speculare sui titoli di Stato. Secondo i monitoraggi di Bankitalia “le banche italiane intendono ripagare questi finanziamenti ricorrendo in parte alle riserve in eccesso detenute presso l’Eurosistema e alla vendita di attività liquide; poco più della metà verrebbe sostituita con fonti di raccolta alternative, riconducibili soprattutto al ricorso al mercato e a provvista da clientela“.

Queste dinamiche sono normali. Quello che lo è un po’ meno il trattamento riservato ai depositanti. Anche questi interessi dovrebbero salire. Invece tenere i soldi sul conto continua a non fruttare niente. Spostarli su un conto deposito (vincolando quindi il denaro per un dato periodo di tempo) produce qualche punto percentuale, comunque ben al di sotto del tasso di inflazione il che significa che in realtà si perde denaro. Non solo, i depositi sono tempestati di piccole e grandi commissioni più o meno pubblicizzate il che spinge ancora più al di sotto dello zero il loro rendimento. Nel 2022, in Italia, il costo di un conto corrente è salito in media dell’8% con un esborso aggiuntivo per ogni correntista di 132 euro. Le risposte delle banche sono laconiche, in sostanza si dice che il conto è un servizio offerto dalla banca che a farsi prestare i soldi ci fa quasi un piacere.

Eppure sui conti correnti italiani giacciono circa 1.500 miliardi di euro e sono soldi che le banche riutilizzano per erogare finanziamenti. Un misero interesse dello 0,1% distribuirebbe ai correntisti 1,5 miliardi di euro in un anno, nulla di eccezionale ma un puntello per il potere d’acquisto che si prosciuga rapidamente, in grado almeno di compensare i costi della tenuta del conto. L’educazione finanziaria spiegherà certo che i soldi andrebbero investiti, valutando il rischio che si accetta di sopportare e del tempo per cui si è disposti a privarsene. Ma in questi tempi di grandissima incertezza (nel 2022 sia le azioni che le obbligazioni e titoli di Stato hanno perso valore) azzardare investimenti è impresa per arditi. Intanto l’inflazione si mangia il valore reale dei soldi depositati e il risparmiatore si trova tra l’incudine e il martello.

In prospettiva il rialzo dei tassi della Bce, che frena l’inflazione ma penalizza la crescita economica, potrebbe avere anche dei risvolti negativi per le banche. Un’economia più debole significa anche più insolvenze tra le imprese e famiglie che fanno più fatica a pagare le rate. In termini di bilanci bancari una risalita dei crediti in sofferenza. Ecco perché i regolatori continuano a suggerire al mondo bancario una certa prudenza nel distribuire dividendi e bonus. Ma questo è il tempo delle cicale. In caso di bisogno a pagare sono sempre quelle formichine che sono i depositanti.

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