Come si sarà accorto chi ha un mutuo a tasso variabile, chi deve accenderne uno nuovo di qualsiasi tipo, chi chiede un prestito o un finanziamento, gli interessi da pagare sono saliti e anche un bel po’. Il fenomeno non è solo italiano ma accomuna gran parte delle economie avanzate. Le banche centrali stanno alzando il costo del denaro per combattere l’inflazione. Negli Stati Uniti gli interessi da pagare su un mutuo trentennale sono ormai vicini al 7%,ossia sui valori più alti dal 2002, in Gran Bretagna i costi dei mutui sono saliti in media di oltre il 40% e la rata ha smesso di essere vantaggiosa rispetto agli affitti. Nei paesi dell’area euro i numeri sono un poco più bassi ma non troppo. I tassi sui mutui nell’area euro sono “saliti significativamente” nei primi sei mesi dell’anno, segnando “l’aumento più forte su sei mesi mai registrato” dopo che avevano raggiunto un minimo record all’1,3% a settembre 2021″, ha scritto la Banca centrale europea nel suo ultimo bollettino economico.

Questa condizione di tassi in aumento è balsamo per i bilanci delle banche. L’attività bancaria propriamente detta è infatti quella di prendere in prestito denaro dai depositanti pagando loro un determinato interesse e utilizzare questi soldi per erogare finanziamenti con scadenze più lunghe e interessi più alti. Questa differenza, il cosiddetto margine di intermediazione, garantisce in media il 60% dei ricavi degli istituti di credito. Una volta questa era l’attività quasi esclusiva delle banche tanto che si usava riassumere la vita dei bancari con tre cifre: 3-6-3. Prendi i depositi pagando il 3% di interesse, presti i soldi chiedendo il 6% e alle 3 del pomeriggio vai giocare a golf. Le cose sono cambiate con il tempo e la banche oggi fanno di tutto un po’. Ma questo rimane il cuore dell’industria del credito. Più gli interessi fissati dalle banche centrali (che riguardano i tassi con cui le banche si prestano soldi a breve termine tra loro ma finiscono per influenzare più o meno direttamente tutti i tipi di finanziamenti) salgono, più le banche hanno spazio per muoversi tra i due valori e guadagnare. Qualche giorno fa il Comitato di Basilea, l’organizzazione che mette a punto le regole internazionali per il settore, ha spiegato che “i tassi di interesse in rialzo dovrebbero sostenere i ricavi da intermediazione“. Una stima fatta dalla società di servizi finanziari Jefferies sulle tre prime banche inglesi calcola che NatWest, Lloyd e Barclays vedranno aumentare i loro ricavi da qui al 2024 di 12 miliardi di sterline (13,6 miliardi di euro) grazie all’incremento dei margini di intermediazione.

Dovrebbe però esserci un rovescio della medaglia. Ossia dovrebbero salire anche gli interessi che le banche pagano a chi soldi glieli presta, ossia i correntisti. Anni di tassi a zero hanno abituato i clienti al concetto che il conto corrente non frutta nulla, anzi è un costo. Se si vuole racimolare qualche spicciolo bisogna optare almeno per i conti deposito che vincolano disponibilità del denaro per un tempo prefissato, sei mesi, un anno etc. Più è lungo il termine in cui il cliente si impegna a non ritirare il denaro più l’interesse sale. Tuttavia, almeno in teoria, le cose potrebbero iniziare a cambiare e gli interessi salire. In teoria, appunto, perché per ora non si è mosso quasi niente. Il Fattoquotidiano.it ha interpellato i primi tre gruppi bancari italiani su questo tema. Il più grande, Intesa Sanpaolo, ha risposto che “Il conto corrente da tempo è concepito come un servizio erogato dalla banca per far fronte ad esigenze quali la gestione dei pagamenti, l’accredito degli stipendi, la domiciliazione delle utenze. Il cliente paga un costo fisso mensile e non vi è più remunerazione, anche perché sono altri gli strumenti disponibili per la gestione della liquidità“. Insomma, accettando i nostri soldi la banca quasi ci fa un piacere.

Laconica la risposta del gruppo Unicredit: “Come ogni anno effettuiamo delle valutazioni circa l’andamento delle principali grandezze finanziarie e nel caso in cui venga riscontrata la stabilità del fenomeno, successivamente definiamo le azioni più opportune”. Nessuna variazione è stata per ora decisa neppure da Bper che risponde: “Bper Banca sta monitorando con grande attenzione la dinamica venutasi a determinare negli ultimi mesi nel mercato finanziario. In tale contesto, Bper sta definendo una serie di soluzioni da proporre alla propria clientela per l’investimento di liquidità a scadenza per durate di breve e medio termine. Per quanto concerne invece la remunerazione dei depositi sui conti correnti, al momento non sono state decise variazioni”.

Eppure sui conti correnti italiani giacciono circa 1.500 miliardi di euro che, ripetiamo, alle banche servono per poter fare le banche ed erogare finanziamenti a famiglie imprese. Un misero interesse dello 0,1% distribuirebbe ai correntisti 1,5 miliardi di euro in un anno, nulla di risolutivo ma un puntello per il potere d’acquisto che si prosciuga rapidamente in grado di compensare i costi della tenuta del conto. L’educazione finanziaria spiegherà certo che i soldi andrebbero investiti, valutando il rischio che si accetta di sopportare e del tempo per cui si è disposti a privarsene. Ma in questi tempi di grandissima incertezza finanziaria (nell’ultimo anno sia azioni che obbligazioni e titoli di Stato hanno perso valore) azzardare investimenti è impresa per cuori forti. Intanto però l’inflazione si mangia il valore reale dei soldi depositati e il risparmiatore si trova tra l’incudine e il martello.

Le banche, per ora, hanno ancora gioco facile visto che la Banca centrale europea mantiene aperte le sue linee di finanziamento a tassi nulli o addirittura negativi, in sostanza paga le banche perché prendano i soldi. In teoria questo denaro dovrebbe servire per finanziare investimenti nell’economia reale (prestiti alle imprese, mutui, etc), in realtà sinora sono stati usati dalle banche della zona euro soprattutto per fare profitti comprando prodotti finanziari. La pacchia, per ora, continua.

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