Il 10 febbraio è il Giorno del Ricordo dei massacri delle foibe e dell’esodo giuliano dalmata. La giornata è stata istituita nel 2004 con lo scopo di “conservare e rinnovare la memoria della tragedia degli italiani e di tutte le vittime delle foibe, dell’esodo dalle loro terre degli istriani, fiumani e dalmati nel secondo dopoguerra e della più complessa vicenda del confine orientale”. Secondo le stime furono tra i 5mila e i 10mila gli italiani vittime delle foibe, quando l’Istria e la Dalmazia durante e subito dopo la seconda guerra mondiale (tra il 1943 e il 1947) divennero teatro di stragi. Agli eccidi seguì l’esodo giuliano dalmata, l’emigrazione forzata della maggioranza dei cittadini di etnia e di lingua italiana in Istria e nel Quarnaro, esodo che si concluse solo nel 1960: secondo le stime, sarebbero tra i 250mila e i 350mila gli italiani costretti a lasciare le loro case.

Il contesto storico – Durante il ventennio fascista, così come altri territori di confine, anche l’Istria fu coinvolta nella politica di assimilazione delle minoranze etniche e di italianizzazione forzata. I “porchi de s’ciavi” dovettero fuggire alle persecuzioni fasciste emigrando in Jugoslavia dalle province della Venezia Giulia. Nell’aprile 1941 l’esercito nazi-fascista iniziò e completò l’invasione della Jugoslavia, con l’occupazione di tutti i territori. Tra il 1942 e il 1943 migliaia di persone persero la vita nei campi di concentramento fascisti, il più famigerato dei quali sull’isola di Arbe (Rab), dove morirono circa 1500 donne e bambini. Dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943, il vuoto di potere lasciò spazio alla riconquista di alcuni territori da parte dei partigiani jugoslavi di Tito, accompagnata da feroci ondate di violenza che colpirono a vario titolo italiani e non.

I massacri delle foibe – I comunisti di Tito misero in atto arresti, esecuzioni, deportazioni nei campi di concentramento balcanici. La violenza di Stato aveva come obiettivo i fascisti e chi li aveva aiutati, ma portò alla morte brutale di migliaia di civili e all’esodo di altrettante persone, persino a guerra finita. Le foibe, una parola dialettale che deriva dal latino fovea (fossa), sono cavità profonde anche decine di metri, tipiche dei terreni carsici. Spesso le fucilazioni avvenivano sui bordi delle foibe, in modo far sparire i cadaveri di migliaia di persone. Con l’occupazione jugoslava di Pola, Gorizia e Trieste, nel maggio del 1945, furono deportate circa 3.400 persone di varia etnia. Di queste, più di un migliaio perse la vita in esecuzioni, ma anche in prigioni jugoslave e in campi di concentramento. Al massacro delle foibe seguì l’esodo giuliano dalmata, ovvero l’emigrazione più o meno forzata della maggioranza dei cittadini di etnia e di lingua italiana dalla Venezia Giulia, del Quarnaro e dalla Dalmazia. Quei territori furono infatti annessi dalla Jugoslavia tramite i trattati di pace di Parigi del 1947, firmati appunto il 10 febbraio 1947.

Un atto di violenza politica estrema – Sulla vicenda per decenni è perdurato il silenzio, da una parte per lo scarso interesse della storiografia e dall’altra per motivi diplomatici e geopolitici tra gli stati confinanti. Oggi però la ricerca storica è arrivata a chiarire gli avvenimenti che si susseguirono in Venezia Giulia e Dalmazia negli anni a cavallo della seconda guerra mondiale. Nonostante questo, le foibe sono oggetto di frequenti polemiche politiche, per via di una ricostruzione che ingigantisce o sminuisce i fatti a seconda della convenienza ideologica. Gli storici chiariscono che i massacri delle foibe non furono “pulizia etnica“, né tantomeno un genocidio. L’obiettivo del governo comunista era infatti mobilitare gli italiani a forza nella lotta per l’annessione della regione alla Jugoslavia. Le foibe furono per gli storici un atto di violenza politica estrema, che aveva come obiettivo non gli italiani di per sé, ma i fascisti. L’ordine del regime comunista di Tito era appunto rivolto contro i fascisti: il nuovo potere voleva distruggere quello precedente mediante i massacri. Poi però le violenze si allargarono anche ai civili, in un clima da resa dei conti dopo anni di antagonismo nazionale.

Le controversie – Su quelle vicende è in atto da anni un dibattito storico e politico. Il disegno di legge per istituire il Giorno del Ricordo aveva come primo firmatario Ignazio La Russa, attuale presidente del Senato. L’approvazione, nel 2004, fu comunque quasi unanime con i soli voti contrari di Rifondazione e dei Comunisti Italiani. Il confronto nell’opinione pubblica si riaccende periodicamente. Lo scorso anno si è riacceso anche sul Fatto Quotidiano. Lo storico Tomaso Montanari ha scritto che il Giorno del ricordo delle foibe “a ridosso e in evidente opposizione a quella della Memoria (della Shoah) rappresenta il più clamoroso successo” di una falsificazione storica. Lo storico Alessandro Barbero, sempre intervistato dal Fatto, ha sostenuto che “le foibe furono un orrore, ma ricordare quei morti e non altri è una scelta solo politica”. Se la destra viene quindi criticata per il tentativo di una parificazione tra i massacri delle foibe e l’orrore della Shoah, alla sinistra invece è stato contestato, in particolare nei primi decenni del Dopoguerra, il silenzio su quanto avvenne in quei luoghi dopo la fine dell’occupazione fascista. Un silenzio, come detto, dovuto anche a ragioni geopolitiche. In questo senso, ha assunto grande valenza storica il gesto compiuto dal presidente della Repubblica italiana Sergio Mattarella e dall’omologo sloveno Borut Pahor, che il 13 luglio 2020 si sono tenuti per mano davanti alla foiba di Basovizza.

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