di Federico Avanzi*

A quasi due anni dalla proposta della Commissione, il 19 ottobre 2022, Parlamento Europeo e Consiglio dell’Ue hanno finalmente deliberato la direttiva 2022/2041 inerente ai “salari minimi adeguati nell’Unione europea”. Muovendo in direzione di una effettiva “economia sociale di mercato” (art. 3 Trattato Ue), i legislatori dell’Unione Europea hanno così deciso di intervenire a contrasto del sempre più incidente e dilagante fenomeno della “povertà lavorativa” ossia la realtà di soggetti che, pur “occupati”, causa l’impiego in condizioni contrattuali di cosiddetta “debolezza rafforzata” (ad esempio combinando il tempo determinato con orario di lavoro a part-time), ma anche in conseguenza a retribuzioni in nessun senso “sufficienti”. Si trovano, comunque, in uno stato di sostanziale indigenza.

Essendo la definizione di un valore “minimo” comune a tutti i 27 paesi, fuori dalle proprie competenze (articolo 153, p. 5, Trattato Funzionamento Ue), la direttiva si muove per altra via ponendo gli Stati membri innanzi a una – non per forza alternativa – scelta: promuovere la contrattazione collettiva sino al raggiungimento di una “copertura” dell’80% dei lavoratori oppure introdurre un salario “minimo” mediante lo strumento della legge.

Sotto questo aspetto, dai dati disponibili (vedi Cnel), l’attuale diffusione dei Ccnl già consentirebbe all’Italia di rispondere al primo dei vincoli summenzionati, con l’effetto di non obbligare il nostro Paese a un intervento normativo a modifica dell’esistente sistema di tutela.

Ciò significa che, in linea teorica, le garanzie dei lavoratori subordinati potrebbero continuare a far perno, in via esclusiva, sull’articolo 36 della Costituzione, il quale esprime il principio di “giusta” retribuzione ossia “proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa”.

Tuttavia nonostante la giurisprudenza, fin da subito, abbia inteso il precetto della Carta alla stregua di un “diritto personale assoluto” (Cass. n. 461/1952), in assenza di uno specifico parametro di riferimento, il rimedio contro salari “ingiusti”, assicurato attraverso i tribunali del lavoro, ha evidenziato, nel tempo, una serie di criticità difficilmente risolvibili.

Per vero, nelle aule di giustizia, al fine di vagliare l’adeguatezza di un dato trattamento economico rispetto al “minimo costituzionale”, da sempre si sono prese a riferimento le “tariffe” definite dalla contrattazione collettiva di settore (nel senso di attività svolta dal datore) sottoscritta dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative (cosiddetti “contratti leader”), in quanto ritenute dalla magistratura quale indice di una situazione di mercato sulla quale ha opportunamente influito l’intervento moderatore delle parti sociali (Cass. n. 1184/1951).

Senonché, in difetto di un generale obbligo di applicazione dei contratti anzidetti (eccezione fatta per le società coop), la concretizzazione del principio espresso dall’articolo 36 si è poi tradotta in una difficoltosa, quanto incerta nell’esito, comparazione, di caso in caso, fra la retribuzione effettivamente riconosciuta al dipendente e una “porzione” (spesso tagliando voci quali scatti d’anzianità, 14°, maggiorazioni e premi) del trattamento economico previsto dal Ccnl preso a paragone.

Senza dimenticare che, in taluni ambiti come quello della vigilanza privata, le costanti pressioni del “mercato” hanno condotto anche sindacati di indubbia rappresentatività a concludere determinazioni salariali, decisamente a ribasso, costringendo la giurisprudenza a utilizzare parametri differenti come il “potere di acquisto” o situazioni personali/familiari direttamente riferibili al lavoratore.

Emblematica, in tal senso, la recente decisione della Corte d’appello di Torino (n. 656/2022) la quale, ribaltando il primo grado e ritenendo non dovuto il confronto con altro Ccnl, ha ritenuto “proporzionata” e “sufficiente” per una prestazione a “tempo pieno”, la retribuzione mensile lorda, onnicomprensiva, di €930.

In sostanza, palese è come l’effettività della tutela normativa, attualmente prevista, risulti una “soluzione” sovente inadeguata poiché offre un rimedio individuale, basato sulla specifica vicenda, a fronte di un problema (il diritto a una “giusta” retribuzione) di chiara portata generale.

Ad aggravare il quadro vi è poi il fatto, decisamente meno discusso, che nel nostro Paese, anche in ragione del peculiare “processo” di tutela sopra detto, neppure è previsto un esplicito apparato sanzionatorio ovvero misure deterrenti/afflittive (di tipo amministrativo e/o penale come in Francia e Germania) che inducano le aziende non solo a vedersela con il lavorare potenzialmente defraudato, ma anche e “direttamente” con l’ordinamento statale.

Infatti, a oggi, “la reiterata corresponsione di retribuzioni in modo palesemente difforme dai contratti collettivi […] stipulati dalle organizzazioni sindacali più rappresentative a livello nazionale, o comunque sproporzionato rispetto alla quantità e qualità del lavoro prestato”, rileva unicamente quale “indice” nella complessa fattispecie penale di cui all’articolo (603-bis c.p. (“Intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro”).

Fortunatamente, fra le disposizioni inevitabilmente da applicare per tutti gli Stati dell’unione (cosiddette previsioni “orizzontali”), la direttiva include espressamente le “sanzioni” disponendo di stabilire “le norme relative alle sanzioni applicabili in caso di violazione dei diritti e degli obblighi rientranti nell’ambito di applicazione della presente direttiva [e che le stesse] devono essere effettive, proporzionate e dissuasive” (articolo 13).

In conclusione, quanto precede e tenendo anche a mente che la retribuzione rappresenta pur sempre una parte essenziale di “causa” e “oggetto” del contratto di lavoro è indiscutibile l’urgenza dell’intervento del nostro legislatore sperando così che le recenti parole del ministro del Lavoro (“abbiamo due anni per recepire la direttiva: le direttive europee non si possono non recepire, nei tempi di legge le andremo a recepire ma con attenzione e dialogo”) non sottendano, in realtà, una “posizione” – anche – del nuovo esecutivo fondamentalmente inerte.

*Consulente del lavoro e titolare dello Studio Associato Toscani-Avanzi. Collabora attivamente con gli studi legali per la gestione e la risoluzione, stragiudiziale e giudiziale, delle controversie in materia di lavoro

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