Un elemento chiave delle politiche migratorie dell’Unione europea è l’allontanamento rapido degli stranieri irregolari, che si realizza concretamente attraverso la cooperazione bilaterale tra Stati di arrivo e Stati di partenza. L’articolo 79 (3) del Trattato sul Funzionamento dell’Unione europea prevede espressamente la competenza dell’Unione a concludere accordi internazionali di riammissione per contrastare l’immigrazione illegale, mentre l’art. 218 assegna al Parlamento europeo il potere di approvazione di tali accordi.

L’ordinamento dell’Unione parla di accordi formali, non di intese informali e segrete. La differenza è sostanziale: gli accordi sono pubblici e sottoponibili al controllo parlamentare e giurisprudenziale, rispettano uno dei principi fondamentali dell’ordinamento dell’Unione, la certezza del diritto, che concretamente si articola sia nella possibilità di conoscere le conseguenze legali delle azioni sia nella prevenzione degli atti arbitrari dell’autorità. Le intese, invece, sono decisioni a porte chiuse, arbitrarie e sfuggono a qualsiasi controllo pubblico. Eppure, parallelamente, la Commissione ritiene che per quanto riguarda gli stranieri le garanzie giuridiche siano d’intralcio al raggiungimento dei suoi obiettivi politici.

In data 29 aprile 2022, infatti, ha inviato un “Non-Paper” con il quale incoraggia le delegazioni all’estero dell’Unione a dare priorità alle “intese” (arrangements) segrete di riammissione spiegando senza nascondimenti che la ragione principale di tale preferenza si trovi proprio nella volontà di non garantire la certezza del diritto:

“La scelta di privilegiare le intese informali, anziché gli accordi, è stata considerata un’alternativa che consente di ottenere risultati rapidi per i Paesi terzi con i quali è urgente migliorare la cooperazione. I negoziati per le intese sono più semplici di quelli per gli accordi di riammissione, grazie alla loro natura non vincolante, alla maggiore flessibilità nel recepire impegni politici (ad esempio sulla reintegrazione), all’assenza di disposizioni sull’obbligo di riammettere i cittadini di Paesi terzi, all’accettazione dei documenti di viaggio dell’Ue, all’approccio personalizzato, alle procedure di approvazione meno onerose nel Paese terzo, alla possibilità di mantenere l’intesa riservata” (p. 4).

Sempre all’insegna dell’informalità e della segretezza, la Commissione sprona le delegazioni a esplorare “anche altri possibili strumenti politici complementari non vincolanti”, in particolare con “i partner dei Balcani occidentali” o il “nord Africa”, senza però specificare quali possano essere. Non solo, si spinge perfino a fornire consigli su come migliorare le relazioni con i partner internazionali al fine di mantenere operative le intese:

“È necessario un approccio pragmatico, anche attraverso frequenti contatti informali con ciascuno dei Paesi partner interessati basati su una messaggistica coordinata, in modo che i partner sentano la stessa enfasi sia da parte dell’Ue che da parte di tutti gli Stati membri, per affrontare problemi specifici di natura operativa […]” (p. 8).

La deriva informale e (semi-)segreta delle politiche migratorie della Commissione non è una novità di oggi. Già il famoso “accordo con la Turchia” (2015), in base al quale si continuano a inviare regolarmente miliardi di euro al governo turco affinché blocchi le partenze dei profughi (soprattutto siriani) verso l’Europa, non è che una mera “dichiarazione congiunta”, semi-informale, da cui si evince l’esistenza di una generica intesa tra le parti, ma non i dettagli, i quali restano riservati.

Non a caso, il Tribunale dell’Ue ha dichiarato nel 2017 la propria incompetenza a valutare i ricorsi contro l’intesa tra l’Ue e la Turchia, dato che si tratta di mera “dichiarazione” e non di accordo formale, come invece prevede l’ordinamento. Il “non-paper” della Commissione rafforza e sistematizza ulteriormente il processo di informalizzazione e secretazione della gestione europea dei movimenti migratori.

Ne deriva l’espulsione degli stranieri dalla soggettività giuridica, ai quali viene così impedito l’accesso allo status di cittadini segregandoli in quello di sudditi. Solo nello stato assoluto, infatti, gli individui non possono conoscere gli obblighi e i diritti essendo concentrati sia il potere di disporre che quello di ordinare nella medesima autorità, che esercita così una sovranità assoluta. Paradossalmente, il tutto accade mentre la produzione legislativa sull’etichettatura degli alimenti si sviluppa in modo convulso: infiniti trattati e regolamenti formali per le etichette delle merci e decisioni arbitrarie e segrete per gestire la vita degli stranieri.

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