L’intervento del governo sulle plusvalenze sovrastimate dei club di Serie A è un bluff. E porta con sé un potenziale rischio indiretto. L’ultimo capitolo delle risposte immediate (ed emotive) della maggioranza di centrodestra ai temi che occupano il dibattito pubblico rischia di non arginare il problema. Sull’onda della condanna sportiva della Juventus che ha riportato sotto i riflettori il tema delle plusvalenze da scambio nel mondo sportivo, utili a imbellettare i bilanci nell’anno in corso ma che finiscono per generare un circolo vizioso a causa degli ammortamenti, l’intervento normativo era stato subito preannunciato dal ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti.

Subito uno stop – E l’esecutivo ha agito a modo suo: “pugno duro”, risposta frontale, problema cancellato. Almeno in apparenza. Innanzitutto le tempistiche si sono già allungate. Il veicolo parlamentare individuato per l’azione – il decreto Milleproroghe – si è subito rivelato inadeguato: il governo ha presentato l’emendamento in un pacchetto di 23 modifiche ma le commissioni Bilancio e Affari Costituzionali hanno subito cassato la norma. La modifica immaginata infatti è una novità, non una proroga. Ed è quindi tecnicamente inammissibile. Poco male, perché il ministero ha fatto sapere che comunque il giro di vite verrà inserito in un provvedimento ad hoc. Ma al di là delle questioni formali, ci sono aspetti sostanziali delle novità immaginate dal Mef che lasciano perplessi i tecnici.

Cosa prevede – Per comprendere da dove nascano i dubbi, bisogna innanzitutto spiegare cosa ha previsto il governo. L’intervento va a incidere fiscalmente sulle società, non sul modo in cui le plusvalenze vengono contabilizzate nei bilanci. Nella relazione tecnica si legge che la nuova norma “elimina la possibilità per le società sportive di poter ripartire le plusvalenze in cinque anni ai fini della determinazione del reddito nel caso di possesso di un anno, rientrando pertanto nella condizione generale del possesso triennale”. Fino ad oggi, i club di calcio come tutte le altre società sportive, godevano di un regime di favore in virtù della frequenza con cui i giocatori cambiano squadra. Potevano quindi diluire in 5 anni il “bene” giocatore anche nel caso in cui fosse rimasto con la stessa maglia per un solo anno. Adesso invece la diluizione scatterà solo dopo tre anni di permanenza, come da normativa che vale per tutte le altre società. La possibilità di ripartizione in 5 anni resta solo per la quota corrisposta in denaro. Oltre a eliminare il regime di favore per le società sportive e adeguare la loro normativa a quella generale, l’esecutivo interviene anche sulle plusvalenze generate dallo scambio secco di due giocatori, senza passaggio di denaro: in questo caso la plusvalenza andrà ad alimentare il reddito dell’esercizio in corso e non potrà essere spalmata. Si mira in sostanza, secondo il governo, “a restringere la possibilità di ripartizione delle plusvalenze ai fini della determinazione del reddito, determinando potenziali effetti positivi in termini di gettito prudenzialmente non quantificato”, si legge ancora nella relazione tecnica.

Il parere dei commercialisti – In altre parole, la stretta riguarda principalmente le plusvalenze senza trasferimento di denaro che concorrendo al reddito in un solo anno potrebbero – tecnicamente – portare a un “segno positivo” nei bilanci, che a quel punto genererebbe un reddito da tassare. “In realtà l’intervento, per come lo conosciamo oggi, appare abbastanza inutile. Ci sembra ininfluente inasprire il tema fiscale rendendo ad alto livello di tassazione queste operazioni per evitarne una sovrastima a bilancio”, dice a Ilfattoquotidiano.it Emanuele Serina, partner dello studio Lexis e segretario nazionale dell’Unione nazionale giovani dottori commercialisti ed esperti contabili. Il concetto è semplice: “Quasi tutte le società sportive hanno bilanci in perdita, non esiste un tema fiscale legato alla tassazione degli utili – spiega Serina – Le plusvalenze sovrastimate vengono architettate per tutt’altro motivo: le società le realizzano per chiudere i bilanci, faccio un esempio, con un rosso di 40 milioni invece di -100. Diciamo che con questo intervento, nella stragrande maggioranza dei casi, al massimo sarà semplicemente più contenuta la perdita fiscale ma non si inciderà sui numeri di bilancio. Appare difficile, e quindi complicato, che la norma diventi un reale disincentivo a sovrastimare le operazioni”.

Il rischio indiretto – Non solo. La norma rischia di generare un effetto perverso. Un esempio: con l’attuale normativa, la squadra Alfa realizza 5 plusvalenze da scambio sovrastimate in un esercizio per un totale X milioni di euro e chiude il bilancio con Y milioni di euro di rosso invece che Z. Con il regime ideato dal governo, realizzando lo stesso numero di plusvalenze per lo stesso ammontare di milioni di euro, chiude il bilancio in utile di 20 milioni. A questo punto la società dovrebbe pagare le tasse su quei 20 milioni. Ma basterà pagare di più i giocatori o allenatore, oppure investire 10 milioni per l’acquisto di un calciatore e fargli firmare un contratto da 10 milioni all’anno, per portare il bilancio in pari e non avere quindi utili che verrebbero tassati. Insomma: l’intervento potrebbe indirettamente far aumentare i costi per evitare di pagare le tasse, continuando oltretutto a realizzare plusvalenze sovrastimate e ad aumentare potenzialmente deficit finanziari. Rischia insomma di diventare quasi un incentivo a spendere di più. “Sì, potenzialmente la norma può generare questo effetto distorsivo”, conferma Serina.

La via più semplice – “La realtà è che bisognerebbe agire sul modo in cui le plusvalenze generate dallo scambio di giocatori vengono inserite nel bilancio. La soluzione per arginare il fenomeno è contabile, non fiscale”. La via più semplice, secondo il segretario nazionale dell’Ungdcec, è una: “In caso di scambi di immobilizzazioni immateriali, come lo sono i diritti delle prestazioni di un calciatore, si dovrebbe utilizzare l’impairment test, ovvero una verifica volta ad accertare se un’attività abbia subito o meno una riduzione di valore – conclude Serina – In questo caso si potrebbe usare come parametro, ad esempio, il contratto fatto firmare al calciatore: se nell’ambito dello scambio ho ingaggiato un giocatore valutato 8 milioni e lo pago 100mila euro all’anno è abbastanza evidente che il suo valore è stato sovrastimato”.

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