di Loredana Faletti*

L’Irlanda sarà il primo paese europeo (ma non del mondo) a introdurre avvertenze sanitarie sulle etichette delle bevande alcoliche. Vino, birra e superalcolici. Quando più di vent’anni fa i provvedimenti toccarono le “bionde”, nessuno chiamò in causa la quantità di sigarette fumate o la loro suddivisione in leggere e pesanti, né la tipologia dei prodotti o le diverse qualità di tabacco. Dopo anni di sensibilizzazione, e nonostante le molte resistenze da parte non solo dei consumatori, ma anche di politici e professionisti sanitari, le evidenze sui danni alla salute provocati dal fumo avevano incrinato la parete compatta di un senso comune che dava per scontato quel gesto elegante, trasgressivo e carico di suggestione diventando patrimonio della consapevolezza collettiva. Fumare fa male, lo sapevano anche i muri. E che si potesse scegliere di fumare poco o “bene” non aveva nulla a che fare con il fatto che facesse male.

Quello che è accaduto in Irlanda ci parla di un lento cambiamento culturale che a piccoli passi definirà nuove coordinate entro le quali ci muoveremo come consumatori e come cittadini. Da decenni l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha definito l’alcol una sostanza tossica e potenzialmente cancerogena che agisce i suoi effetti negativi sulla salute fisica e mentale e sulla sicurezza. E, per dirla con le parole del dott. Luigino Pellegrini, medico di sanità pubblica e figura storica del mondo dell’alcologia italiana e dei Club Alcologici Territoriali di Trento, “che ancora oggi si discuta se mettere in guardia i consumatori sui rischi dimostra solo quanto sia potente la lobby dell’alcol in Europa”. Nel nuovo Piano d’Azione sull’Alcol (2022-2030) dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, le responsabilità dell’industria dell’alcol vengono per la prima volta segnalate quali fattori che interferiscono in modo significativo con l’implementazione di misure efficaci di riduzione dei danni alcolcorrelati rallentando il raggiungimento di obiettivi di salute pubblica.

Erano anni che l’Irlanda aspettava il via libera alle avvertenze sulle etichette: si è vista rifiutare la proposta nel 2016 e nel 2018 proprio a causa degli articolati movimenti di pressione che si diramano all’interno delle istituzioni europee. Finché la Commissione Europea non ha più potuto sottrarsi, di fronte alle sempre più risonanti evidenze scientifiche (quelle istituzionali e indipendenti, non quelle finanziate e divulgate dai portatori di interesse), ai costi sanitari e sociali legati ai consumi e alla voce della società civile, dei cittadini e delle organizzazioni che lavorano a tutela della salute di tutti.

Esiste infatti un importante movimento che opera a livello internazionale a sostegno delle politiche alcologiche e di salute pubblica. Tra i protagonisti principali di questo movimento c’è Eurocare – European Alcohol Policy Alliance, un’alleanza di “Organizzazioni Non Governative” che ha scelto come sede proprio Bruxelles e che conta più di 50 membri distribuiti in 20 paesi europei. È una realtà libera, che ha scelto di non accettare finanziamenti dal mondo dell’industria e che attinge esclusivamente ai risultati di una ricerca indipendente. Partner italiano del network è Eurocare Italia, di cui chi scrive fa parte, un’associazione con sede a Padova che dal 1993 si occupa di politiche di riduzione e cura delle problematiche alcolcorrelate.

Da anni Eurocare porta in Commissione Europea la voce della società civile. Ha sostenuto fermamente la necessità di introdurre sulle etichette delle bevande alcoliche le avvertenze sulla salute, le dichiarazioni nutrizionali e gli ingredienti, a garanzia del diritto di tutti di essere consumatori informati e consapevoli. Ma gli ambiti di azione sono numerosi e i principali, in linea con i “Best Buys” per le politiche sull’alcol promossi da Oms e Onu riguardano l’aumento della tassazione, divieti o maggiori limitazioni in merito alla pubblicità e alle sponsorizzazioni e le restrizioni sulla disponibilità fisica di alcol. Nessun intervento valido di per sé, tutti inseriti in una strategia ben più complessa e complessiva che contempla diversi livelli di azione, politica, legislativa e comunicativa. In una parola: culturale.

La scelta dell’Irlanda rappresenta un pericoloso apripista per altri paesi europei che potrebbero seguirne l’esempio e le stime degli stessi stakeholder parlano già di perdite ingenti. Sarebbe bello se continuassero a parlare di perdite ingenti, perché è il loro ambito di competenza. E’ il loro lavoro ed è giusto che lo difendano. Invece no. Parlano di salute. Parlano di tradizione. Alimentano falsi miti. Consolidano, appunto, la cultura del bere.

Dichiarano di rivolgersi ai bevitori moderati dimenticando che in alcuni paesi il 76% delle vendite riguarda i forti bevitori. Condannano un supposto tentativo di demonizzare il vino con argomentazioni suggestive come “il vino non è alcol”. Si appellano alla tradizione e alla convivialità quasi fossero di per sé fattori protettivi. Attribuiscono ai forti bevitori la responsabilità del loro consumo dannoso, come se la matrice culturale, la comunicazione commerciale e collettiva e le false credenze non avessero un ruolo nel sostenere la scelta delle persone di bere. Promuovono i consumi in contrasto con la Legge 125/2001, articolo 13, comma 2b, che vieta di attribuire all’alcol “efficacia o indicazioni terapeutiche che non siano espressamente riconosciute dal ministero della Sanità” (spesso usato dall’industria è un messaggio simile a quello rilasciato in questi giorni dall’attuale ministro della Salute Orazio Schillaci, medico: “Il vino, per la sua composizione ricca e originale in termini di polifenoli e antiossidanti, è anche associato a benefici per la salute”).

A questo proposito, a chi volesse approfondire le strategie comunicative utilizzate dall’industria per promuovere il consumo di alcol ancora prima che un brand, consiglio la seconda edizione del breve, ma importante lavoro internazionale I sette messaggi chiave dell’industria dell’alcol (The seven key messages of the alcohol industry, Eucam, Eurocare, 2022). Emerge come l’industria delle bevande alcoliche sia prima di tutto un’industria di marketing e solo in secondo luogo un produttore di alcol e dimostra che marketing non significa solo pubblicità e sponsorizzazioni, ma un insieme di precise strategie comunicative finalizzate a costruire e consolidare messaggi culturali a favore della normalizzazione del bere. Perché, come diceva Freddy Heineken, ex amministratore delegato dell’omonima azienda, “People don’t drink beer. They drink marketing”.

* attivista di Eurocare Italia (www.eurocareitalia.it), associazione padovana che fa parte di una rete europea di ong che si occupano di politiche alcologiche a livello nazionale e internazionale in linea con le indicazioni dell’Oms e le evidenze scientifiche della ricerca indipendente

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