“Mamma, stanotte la teniamo al nido un paio d’ore, però domani ti vogliamo sul pezzo”. Questa è pazza, ho pensato. Anzi no: sono io il problema. Sono io che sono troppo “molle”, inadeguata. Che pretendo di potermi riposare qualche ora visto che non chiudo occhio da tre giorni. Sbaglio, è evidente. Dovrei essere a totale disposizione della mia piccola, riporre in un angolo il mio dolore fisico, la mia stanchezza straziante dopo un travaglio interminabile.

Faccio richieste che, a giudicare dalla risposta che mi viene data dall’operatore sanitario, sono del tutto fuori luogo, egoistiche. Sono rigonfia di sensi di colpa perché ho la mia bambina lì, urlante, e non ho la forza di alzarmi per provare ad allattarla, per cambiarla. Non riesco né a stare seduta né a stare sdraiata perché ho ancora il catetere infilato nella schiena, ma nessuno mi chiede come sto. Impiego una vita anche ad andare in bagno, non mi lavo da quando sono entrata qui dentro. Ma sembra che a chi incrocio in questo ospedale il mio stato psicologico non interessi. Interessa se è regolare la pressione, se il taglio è a posto, quante volte l’ho attaccata.

Da quando sono lì vengo chiamata “mamma” da chiunque, non ho più un nome e un cognome. Non sono più una persona? Tutti questi sono ricordi nitidi che salgono come un rigurgito – e non trovo parole adeguate per esprimere il dolore, lo strazio – a leggere la notizia del neonato soffocato al Pertini. Saranno le indagini ad accertare cosa sia successo. Se sia stata quella forzatura di lasciarlo in camera con la madre, stremata e supplicante di riposo, a innescare la tragedia. Posso però dire che nella mia esperienza – e ho saputo non solo nella mia, anzi: siamo tantissime – quella pratica decantata come il paradiso in terra del rooming in – ovvero del rimanere insieme al neonato sin da subito – sia stata ingestibile nel corso della degenza. Fisicamente e psicologicamente.

La prima volta che ne ho sentito parlare era al corso preparto, frequentato in un grande ospedale milanese dove ho poi partorito. A giudicare da quanto diceva l’ostetrica pareva il sogno di tutte: avere il piccolo tra le braccia sin da subito, tenerlo in camera con sé anche alla notte durante la degenza “anche perché è alla notte che si risveglia l’ossitocina e c’è più latte”. E passavano per madri snaturate quelle che negli anni 80 o prima lo cedevano al nido dopo la nascita perché legittimamente dovevano riposare.

Che dire, al corso preparto mi aveva convinta: non un cenno a quanto, da madre, si potesse essere fragili sotto tutti gli aspetti. Al dolore fisico, al bisogno di dormire. Tutte necessità che, una volta diventate madri, sembrava fossero capricci. In pratica dovevi trasformarti in un essere sin da subito devoto a qualsiasi esigenza di quella piccola vita indifesa, perché ora i tuoi bisogni non contavano più nulla. Sempre durante quegli incontri di preparazione – costretti a una modalità online causa Covid – pareva esistessero solo parto naturale e allattamento, che quella fosse l’esperienza che – con altissime probabilità – avremmo affrontato. La magia dell’allattamento, il fatto che solo quella modalità all’inizio potesse creare un attaccamento insostituibile. Che il ciuccio crea dipendenza e quindi meglio non darlo, specie nelle prime settimane per non compromettere l’allattamento.

Induzione e cesareo? Se n’è parlato pochi minuti, per dare spazio alla bellezza e allo stupore del dolore delle contrazioni nel parto naturale, segnali meravigliosi che la nascita del bambino fosse alle porte. Sembrava che la respirazione avesse poteri soprannaturali. Una narrazione che mi commuoveva, mi galvanizzava anche, creava un senso di attesa fiducioso. Perché quello che è naturale è bello, me lo insegnano qui e sarà vero.

Poi, la realtà: l’induzione programmata partendo dal palloncino – un dispositivo rigonfio d’acqua per la stimolazione meccanica della dilatazione -, le infermiere che mi dicono “vada a dormire” quando ho questo coso dentro che non mi fa neanche stare seduta. Camminare è l’unica attività che riesce a darmi sollievo, ma mi dicono: “Cammini in stanza non in corridoio, altrimenti qui tutte le donne si mettono a camminare”. Ma in realtà erano tutte a letto, in molte tra dolori e lamenti. Dopo altre vicissitudini, arrivano 16 ore di ossitocina in vena, con 14 di epidurale. La bambina non si posiziona, mi dicono: “eh mamma però lei non collabora”. Poi anche loro si rendono conto che quello che era così bello, naturale, a me non può succedere. E allora cesareo.

A quel punto, visto che non ho seguito il percorso “naturale”, mi sento abbandonata. Nessuno si interessa più a me. Mi preparano e aspetto su una barella, mentre sono lì già da oltre due giorni. Poi, l’inaspettato, perché “tutte le donne se vogliono possono allattare“. E invece l’allattamento non parte. Ho vari problemi, e molto dolore, che non mi consentono di farlo. La piccola ha fame, devo chiedergli io di darle da mangiare. Le prescrivono pasti di latte artificiale guardandomi come una sfaticata, cercando ancora una volta di attaccarmela al seno mentre piango dal male. Mi sento trattata come una che è entrata in trincea ma crede di stare in vacanza. La degenza risulta peggio del parto infinito, e ce ne vuole. Il trauma di inadeguatezza mi paralizza, e mai avrei pensato prima che potesse essere così. Se non fosse stato per mia madre e per il mio compagno, e per la loro insistenza nel mettere il mio benessere al primo posto, non riuscirei neanche a parlarne.

In quelle ore, in quelle giornate di degenza la possibilità che quel carico di aspettative – sociali? Antropologiche? Misogine? Mediche? – si trasformi in un enorme grumo di sensi di colpa è altissima, tanto quanto la fragilità intrinseca di quella fase. Prima, per me, inimmaginabile. Dicono, e hanno ragione, che dipende tanto dal personale che incontri, dalle infermiere e dalle ostetriche da cui vieni assistito. Dall’ospedale che più grande è meno cura si riceve, dagli operatori che sono sempre meno e sempre più impegnati. Ma è il concetto di maternità intensiva – quella, nella pratica, dove la dedizione al bambino è totale e i bisogni della madre del tutto secondari in nome del sacrificio per la prole – che si insinua a partire dall’ambiente ospedaliero che può provocare danni, anche di lunga durata.

Sono tornata a casa convinta che mia figlia avrebbe ricordato a vita il mancato allattamento come una mia mancanza, che l’attaccamento meraviglioso di cui mi parlavano era un’esperienza che non mi sarebbe appartenuta. Che non ero stata capace di farla nascere come tutte le donne sono programmate per fare. Che se avevo bisogno di dormire ero un’egoista che non si era resa conto che mettere al mondo un figlio implicava sacrificio. E che io non ero disposta a farne. Quanta violenza, quanto giudizio può creare questa parola. Il fatto che tutti ti chiamino solo “mamma”, che il tuo nome sparisca, mentre sei in ospedale, dovrebbe farti sentire come un soldatino reclutato felice di stare in prima linea, non come una persona svuotata della sua identità o meglio, che ne ha una nuova che spazza via con un colpo di spugna quella precedente.

Ero consumata da questi pensieri, perché credevo di essere l’unica a sentirmi inadeguata, l’unica meritevole di un atteggiamento tanto giudicante in ospedale. Gli esperti erano loro, dovevano avere ragione per forza, pensavo. Mi vergognavo di quello che sentivo, mi vergognavo se dicevo di sentire pressioni ingestibili. A sentire loro, dovevo solo essere felice di avere la mia bambina e nient’altro. Poi, nel loop dei pensieri intrusivi, ho deciso di capire se era un problema mio. E a quel punto ho scoperto che eravamo in tante.

Sono partita a chiedere dal gruppo preparto, dove di questo esplicitamente non si era mai parlato. Ci scambiavamo messaggi su altri temi: su come stavamo, su come stava andando, non su come ci avevano trattate. E lì si è aperto il vaso di Pandora. La ragazza col cesareo programmato che all’incontro coi medici sull’intervento ne era uscita terrorizzata per le potenziali conseguenze e col senso di colpa per non potere fare nascere “naturalmente” suo figlio; i casi di epidurale negata (mancanza di anestesista, il “dai che ormai ci sei, non ti serve” quando mancavano ancora ore ed ore), il “non ci sono più le mamme di una volta” alla richiesta di parto con analgesia, più volte scoraggiato anche durante il corso preparto; il “cent’anni fa tuo figlio non ce l’avrebbe fatta”” alla neomamma che non riusciva ad allattare. Insomma, eravamo in tante, più o meno segnate dall’esperienza.

Ma non mi bastava il confronto con la cerchia più stretta per validare quello che avevo provato. Ne ho cercate tante altre, ne ho trovate online, tra gruppi e account instagram e social che raccontano cosa sia davvero la maternità. Che abbiamo il diritto di scegliere sul nostro corpo, sul tipo di parto, sull’allattare o meno, sul riconoscimento dei nostri bisogni umani. Come quello, ad esempio, di riposare per garantire anche il benessere del bambino oltre al nostro. Siamo tante, tantissime, a esserci sentite così, e a sentirci così. Ed è ora di dire e noi stesse e a chi ci assiste, che tutto quello che sentiamo, da mamme, non deve essere sminuito e sottovalutato. Ma ha il diritto di esistere e di essere supportato.

Se vuoi condividere la tua esperienza o le tue riflessioni, scrivici a redazioneweb@ilfattoquotidiano.it

Articolo Successivo

Al carcere Beccaria di Milano i ragazzi si ribellano: chiudiamolo

next