Nella notte tra venerdì e sabato due ragazzi reclusi nel carcere minorile Beccaria di Milano hanno dato fuoco a un materasso nel reparto infermeria dell’istituto. Sembra che i due ragazzi fossero tossicodipendenti e abbiano avuto una crisi di nervi dovuta all’astinenza. Un comportamento grave, non c’è dubbio. Così come grave è stato quello che ha portato sette ragazzi detenuti nello stesso carcere a evadere lo scorso dicembre. Faccio però due considerazioni.

La prima: un comportamento grave, ma non alziamo i toni e non facciamolo divenire uno scontro. Il modello italiano di giustizia penale minorile è sempre riuscito – a partire almeno dall’entrata in vigore del codice di procedura penale minorile nel 1988 – a mantenere un approccio di tipo educativo e non prettamente repressivo. Parliamo di ragazzini, di un’età spesso calda per tutti gli adolescenti. Parliamo di personalità in rapida evoluzione e non certo di criminali fossilizzati in una scelta di vita deviante. Parliamo di giovani ai quali la società non può certo decidere di rinunciare.

I magistrati minorili, gli assistenti sociali, gli operatori delle carceri e delle comunità sono da sempre uniti nell’intento di gestire questi ragazzi con strumenti di comprensione e di educazione alla vita adulta. I sette ragazzi evasi sono stati tutti ripresi dopo poche ore. Qualcuno era andato a casa dai genitori che gli hanno subito detto di rientrare in carcere, qualcun altro era andato dai nonni. Ragazzini. Non proprio esperti latitanti. Se a partire dall’episodio di Natale, o da quello dei giorni scorsi, apriamo dibattiti dai toni accesi che parlano di abbassamento dell’età imputabile (oggi in Italia si può andare in carcere solo a partire dai 14 anni) o di necessità di gestire le carceri minorili con la stessa durezza di quelle per adulti, allora buttiamo a mare anni e anni di un modello di giustizia cui tutta l’Europa oggi guarda.

La seconda considerazione: ascoltiamo quello che questi ragazzi ci vogliono dire. Lo fanno male, lo fanno usando canali di comunicazione che bisogna spiegar loro essere illegittimi. Non si incendia un materasso. Mai. Si rischia di far del male, non bisogna mai usare la violenza neanche contro le cose. Tutto vero. Ma spieghiamoglielo. Come lo spieghiamo a tutti i ragazzi fuori dal carcere che fanno qualcosa che non va. E cerchiamo di capire perché lo fanno e cosa vogliono dirci con quel gesto. Guardando al carcere Beccaria di Milano, un’idea ce la possiamo fare.

Negli scorsi giorni con il nostro osservatorio sulle carceri minorili siamo stati in visita all’istituto. Non è il posto migliore dove un ragazzo possa finire a vivere, soprattutto se tossicodipendente. Non è un posto adatto per una presa in carico di questo tipo. I lavori di ristrutturazione vanno avanti da oltre sedici anni. Quel carcere è un cantiere dove nessuno potrebbe vivere; figuriamoci dei ragazzi. Perché sta accadendo questo? Perché i lavori non finiscono? Il carcere va chiuso, ristrutturato e solo dopo eventualmente riaperto. Deve restare chiuso fino a quando tutte le aree del carcere, comprese quelle della socialità e dei laboratori, non saranno pienamente agibili.

Oggi in istituto ci sono 24 ragazzi, di cui 16 minori e 8 giovani adulti. Molti di loro sono nelle condizioni per andare in comunità. Ma il posto in comunità non si trova. Perché? Stiamo parlando della Lombardia, non certo di una zona economicamente e socialmente depressa dell’Italia rurale. Il numero delle comunità è massimo in quella regione. Perché non si trova un posto a questi ragazzi? Troviamolo. Spostiamo i ragazzi in comunità e chiudiamo l’istituto. Facciamolo con la responsabilità di adulti quali siamo. Senza alzare i toni di uno scontro che non esiste.

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