Da qualche tempo a questa parte siamo costretti a sorbirci in maniera crescente le pubbliche ‘confessioni‘ di ‘vip’, più o meno noti, i quali ci rendono edotti sugli ‘eccessi’ della loro vita passata senza che nessuno si sia incaricato di chiederne loro conto. Questo in omaggio ad una deriva mediatica da avanspettacolo confessionale che prevede la messa in piazza di trascorsi più banali che realmente trasgressivi come preludio all’immancabile assoluzione da richiedere via social. Chi racconta di aver cambiato donne e motori e oggi si trova senza un soldo, chi intasa l’etere spiegando con dovizia di particolari di come sia caduto nella dipendenza da gioco e oggi si trovi costretto a campare con una misera pensione (in realtà più sostanziosa dell’assegno minimo che percepisce la mia vicina di casa). Chi ha gettato tutto al vento e lo rifarebbe, ma ora che il portafoglio è vuoto si sente momentaneamente ‘povero e pentito’. Chi ha trascorso il fiore dei suoi anni tra sesso, droghe e oggi, che non è più oggetto di desiderio in quanto la carta d’identità batte i suoi colpi, ci racconta malinconicamente un passato di letti e sniffate.

I commenti pubblici tipo ‘macchissenefrega’ , di certo i più frequenti, non devono però impedire un tentativo di analisi di questo fenomeno pruriginoso dilagante. Costoro espongono senza ritegno quelle che un tempo venivano chiamate le ‘pudenda’, le vergogne, i classici panni sporchi da lavare intramoenia. Operano cioè un percorso inverso a quello che si fa sul lettino di un analista. L’ipertrofica e gaudente esposizione delle loro vite pregresse sotto i riflettori si trova dalla parte opposta della rettifica personale (che non è un pentimento), preludio necessario a un cambio di rotta che viene lavorato e messo a punto nella propria intimità, con o senza l’aiuto di un lavoro analitico.

Non si cerca dentro di sé la cifra utile a capire come ci si possa essere ridotti così in basso, ma si va alla ricerca di una condivisone pubblica, un ulteriore amplificazione mediatica che cerca nell’altro uno spiraglio per essere riammessi al grande show. La confessione mediatica di questioni personali, di eccessi e fuori norma sono stesi come panni in cerca di uno sdoganamento, un’accettazione che costoro sentono loro dovuta in omaggio alla stregua di un ‘così fan tutti’.

Droghe, eccessi di sesso, alcool, denaro gettato via. Ora che ho dissipato tutto quello che possedevo potete darmi un’altra possibilità? L’analisi non è mai confessionale e se lo diventa non è più tale. L’analisi porta un soggetto a fare i conti coi propri modi di godere e di eccedere cercando di sostenerlo nel suo non volerne essere inghiottito. Queste pubbliche ammende non richieste paiono invece un goffo tentativo di essere riammessi in società previo un fasullo e plastificato pentimento sul quale giornalisti in fregola sacerdotale si gettano con avidità da audience. Tallonati da analisti anch’essi preda di tragiche derive eucaristiche con mano benedicente ben esposta in tv.

A bene vedere, cosa contraddistingue queste ‘confessioni’? La noia. La tremenda e noiosa ripetitività del godimento che genera se stesso, autocefalo e autoreferente, l’eccesso come forma mentale e stile di vita automatico quanto il cambio della Yaris. Tutto uguale, tutto con un finale già scritto. Tutto con musica strappalacrime o silenzi plumbei da studio che ospita le ‘sconcertanti’ verità descritte da questi vip. Noiosi come lo erano le pagine di Sade chiuso nel suo castello.

Questi ‘vip’ paiono in cerca di un padre che non c’è più, desiderosi di clemenza o, peggio, anelano a un pertugio nel quale poter cercare un altro giro di giostra, una particina in tv, uno spot, un’ospitata in uno dei tanti ‘talk show’. Esistenze banali mortalmente eguali tra di loro. “Mi sono drogato e ho giocato tutto quello che avevo. Ho avuto mille uomini, mille donne. Ho cambiato le automobili”. Capirai.

Queste confessioni non richieste paiono uscire dalla bocca di uomini e donne che sembrano non aver mai desiderato davvero nulla e sono intrappolati in un copione cucito addosso per stare in un mondo, quello dello spettacolo, che li ha tenuti a quel guinzaglio e al quale si sono docilmente adattati. Dalle loro parole non emerge nulla che chiami in causa la loro interiorità e i loro desideri, obbligati a recitare sino alla fine la parte dell’artista maledetto in cerca di un ‘perdono’ che non potrà arrivare.

Ancora li ritroveremo in qualche programma notturno in cerca di favolosi ‘scoop’ da ‘svelare’ agli italiani, bramosi di conoscere le altrui vergogne. Per molti di essi quei dieci minuti passati, magari con luce soffusa, a recitare la parte dei pentiti e contriti frutterà un gettone di presenza, un titolo, una fugace apparizione. Le vere trasgressioni si fanno in silenzio, al buio, non prevedono la parte del pentito che si confessa. Il resto è show.

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