di Giuliana Proietti

Il Blue Monday (lunedì triste, in inglese) è un giorno che cade il terzo lunedì di ogni gennaio: fino a qualche anno fa non ne parlava nessuno, ma come è successo per altre tradizioni importate dai paesi anglofoni, ormai non sapere che cosa sia il Blue Monday fa tanto categoria baby-boomer (altra definizione di importazione, che caratterizza il detestatissimo gruppo antropologico degli anziani arretrati, conservatori, disinformati e del tutto imbranati con le tecnologie, che non frequentano i social e che usano un linguaggio arcaico).

Chi mai vorrebbe essere considerato tale, specialmente se del boomer non ne ha neanche l’età?

Corriamo dunque subito ai ripari spiegando che il termine “Blue Monday” è stato coniato dal giovane psicologo Cliff Arnall nel non lontanissimo 2004, per una compagnia di viaggi, la Sky Travel, che gli aveva chiesto una “formula scientifica” per esprimere la malinconia che le persone in genere provano a gennaio.

L’obiettivo del committente era “curare” questa malinconia attraverso la promozione di un viaggio organizzato da loro offerto, che avrebbe favorito il benessere degli acquirenti. Niente altro, dunque, che un’azzeccata campagna pubblicitaria.

Cosa c’è di veramente psicologico nel Lunedì Blu? E’ sicuramente intuitivo che verso la metà di gennaio ci siano molti fattori che giocano contro l’allegria: il freddo, il maltempo, la mancanza di luce, il fallimento dei buoni propositi per il nuovo anno, il ricordo ormai lontano dei giorni di Natale, in cui tutto era improvvisamente diventato luccicante, si facevano e ricevevano regali senza motivo, tutti sembravano buoni e belli.

A metà gennaio tutto questo è finito e ci sono nuove ragioni per essere depressi: quale giorno della settimana poteva rappresentare meglio questa tristezza? Certamente il lunedì, si è detto lo psicologo, perché è il giorno del ritorno al lavoro e alle preoccupazioni, dopo la pausa del weekend.

Così è nata la pseudoscienza del terzo lunedì di gennaio (che noi italiani peraltro definiremmo nero, anziché blu), ormai molto popolare nei paesi anglofoni, tranne che in Australia (dove gennaio significa piena estate!) e che ora è sempre più pubblicizzata anche sui nostri media.

Lo stesso Cliff Arnell, a cui è attribuita l’invenzione del termine, fa ora apertamente campagna contro la sua creazione, affermando che essa aveva solo lo scopo di ispirare le persone a migliorare la propria vita, non certo di incutere terrore. Arnall ha inoltre ammesso, a distanza di qualche anno, di aver semplicemente apposto la propria firma su uno studio che gli fu presentato con le conclusioni già scritte. (Chi conosce Edward Bernays e la sua Propaganda non si stupisce certo di questa commistione fra scienza e marketing).

Quello che possiamo dire, per concludere la riflessione sul Blue Monday con ottimismo, è che la felicità, il buonumore o semplicemente il benessere non dipendono dal giorno o dal mese dell’anno, ma dall’equilibrio che si riesce a stabilire fra vita privata e vita sociale e lavorativa: non a caso Finlandia, Danimarca, Islanda, Norvegia e Svezia sono da anni saldamente nelle prime dieci posizioni delle classifiche dei paesi più felici al mondo, e certo non sono i Paesi più caldi del globo terrestre. Almeno per il momento.

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