“Ho due notizie, una buona e una meno buona”. Così mi ha salutato il chirurgo al risveglio dall’anestesia. “L’intervento di colecistectomia è perfettamente riuscito”. Mi sono sentito rincuorato. E svaniva di colpo la paura inconfessata di uscire di scena come capitò a Andy Warhol; un sottile timore nato nella lunga, febbrile attesa dell’intervento di urgenza, legata allo smaltimento degli anticoagulanti.

E la cattiva notizia? “Infezione da Sars-Cov-2”, esito dell’ennesimo tampone antigenico, nell’anticamera della sala operatoria. Al momento, paucisintomatico.

Durante la degenza ho visto cose che voi umani sani non vedrete nel corso di una vita intera; ho apprezzato l’abnegazione del personale sanitario, medico e infermieristico, falcidiato dalla progressiva e inesorabile decimazione degli organici; ho compreso quanto sia idiota il dominio della burocrazia. Per esempio, il fascicolo sanitario elettronico che giace nel sistema della Regione Lombardia, estremamente ben concepito e dettagliato, non è affatto accessibile ai sanitari di un’altra regione. Per esempio, a quelli della vicina Liguria che, a sua volta, ha sviluppato un proprio sistema, probabilmente altrettanto efficiente. Un unico sistema informatico sanitario a scala nazionale, come quelli dell’Agenzia delle Entrate o dell’Inps, potrebbe salvare vite umane in caso di incidenti e altre urgenze sanitarie in un paese dove mobilità e ubiquità crescono inesorabilmente da anni. E probabilmente garantire qualche risparmio. La pandemia non ha insegnato nulla.

Tra degenza e convalescenza ho riflettuto sul destino della società, oberata dalla sovrastruttura burocratica. Sanità e università, così come le imprese e la cultura, sono prigioniere del controllo di gestione che antepone gli indici economici a ogni altra istanza e interpreta il merito come pura fedeltà nei confronti del bastone del comando. Non si tratta di un destino cinico e baro, ma dell’abisso in cui sta consapevolmente naufragando non soltanto l’Italia ma l’intero Occidente, come testimonia l’involuzione delle istituzioni europee, elettive e non, e dell’Alleanza Atlantica, nominalmente “difensiva”.

Negli anni ’90 del secolo scorso, la civiltà occidentale si trovò davanti a un bivio. Esaurita l’epoca d’oro dei Gloriosi Trent’anni – dal dopoguerra alla prima grande crisi petrolifera – e finita la guerra fredda con la dissoluzione dell’Unione Sovietica, l’Occidente poteva scegliere tra globalizzazione o internazionalizzazione, tra crescita quantitativa o qualitativa dei consumi, tra società gerarchizzata o condivisa. Nell’anno orwelliano 1984, il filosofo inglese Nicholas Maxwell aveva pubblicato un testo profetico, Dalla conoscenza alla saggezza, che poneva studiosi e intellettuali davanti al crocevia tra ricerca della conoscenza o promozione della saggezza. Un nodo cruciale.

Abbiamo scelto il primo di tutti questi sentieri, senza porci domande. E, come ha scritto Maxwell in un articolo recente, la crisi odierna scaturisce da una scelta culturale di fondo. Ci siamo dedicati con indubbio successo a risolvere il primo dei due grandi problemi del sapere – il problema del sapere finalizzato ad acquisire conoscenze scientifiche e know-how tecnologico – senza avere affrontato il secondo grande problema del sapere – imparare a creare un mondo civile.

Il primo sentiero nasce da una visione top-down, calata dall’alto, e ha condotto inevitabilmente alla necessità di gerarchizzare ogni azione umana, pesandola sulla bilancia finanziaria. Il secondo inesplorato percorso alla ricerca della sapienza è tuttora aperto. E non va nascosto alle nuove generazioni. Muovere dal basso, secondo una visione bottom-up, non è soltanto utopia. È il mio augurio per l’anno che verrà.

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