di Roberto Iannuzzi*

Taiwan, con la sua sofisticatissima produzione di microchip che rifornisce gran parte del pianeta, ha lungamente rappresentato uno dei simboli della globalizzazione. Ora l’isola, colta nel mezzo della serrata competizione tecnologica fra Usa e Cina, sta diventando un caso emblematico nella ridefinizione delle catene di fornitura mondiali e nella crisi del modello globalizzato che abbiamo conosciuto fino ad oggi. L’ascesa di Taiwan come produttore di semiconduttori, negli ultimi trent’anni, è stata impressionante. Nel 1990, Europa e Stati Uniti erano responsabili rispettivamente del 44 e del 37% della produzione mondiale di microchip. La porzione rimanente era fabbricata in Giappone. Oggi la società taiwanese Tsmc realizza il 20% del fabbisogno mondiale, mentre la quota di Usa ed Europa è scesa ad appena il 12 ed il 9% rispettivamente.

Come ha scritto Chris Miller nel suo recente libro Chip War, il mondo moderno dipende dai microchip, il potere militare, economico, strategico si fonda su di essi. Praticamente ogni cosa, dai missili ai telefoni cellulari al mercato finanziario, funziona grazie ad essi. Oltre a Taiwan, i maggiori produttori mondiali di microchip sono Corea del Sud, Giappone e Cina. Ma – e questo è il punto chiave – l’isola taiwanese arriva a coprire il 90% della produzione dei semiconduttori più avanzati (sebbene sulla base di progettazione e brevetti spesso appartenenti a compagnie americane, europee e giapponesi) e li vende sia ai cinesi che agli americani. Dal canto suo, Pechino spende annualmente più denaro per acquistare microchip che per importare petrolio e sta investendo cifre enormi (si parla di un imminente pacchetto da 143 miliardi di dollari) per sviluppare la propria industria di semiconduttori, al fine di diventare autosufficiente. I microchip più avanzati sono essenziali nella tecnologia militare e nella fabbricazione di armi di ultima generazione ed è soprattutto in questo settore che Washington intende indebolire i suoi principali avversari (Cina e Russia).

A questo riguardo, Taiwan acquisisce un valore strategico ulteriormente complicato dall’annosa disputa fra Pechino e Taipei sulla possibile riunificazione dell’isola alla madrepatria cinese. Nel novembre 2021, lo Us Army War College pubblicò uno studio intitolatoBroken Nest: Deterring China from Invading Taiwan, in cui si raccomandava al governo Usa di minacciare esplicitamente che avrebbe distrutto gli stabilimenti taiwanesi della Tsmc in caso di invasione cinese dell’isola – una minaccia ribadita dall’ex Consigliere per la sicurezza nazionale Robert O’Brien.

Naturalmente, una simile azione avrebbe ripercussioni enormi, mettendo in crisi interi settori dell’economia mondiale. Ad agosto, l’amministrazione Biden ha inoltre approvato il Chips and Science Act finalizzato a riportare in patria (onshoring) la produzione di semiconduttori e a bloccare l’accesso della Cina alle tecnologie occidentali d’avanguardia nel settore. In conseguenza di questa legge che premia le imprese che investono negli Usa e di chiare pressioni da parte di Washington, la Tsmc ha deciso di triplicare i propri investimenti in Arizona.

L’obiettivo del nuovo stabilimento è di produrre 20mila microchip al mese, una cifra ancora piccola rispetto agli 1,3 milioni attualmente fabbricati dalla compagnia taiwanese. Gli Usa non pretendono di rimpiazzare l’intera capacità produttiva che la Tsmc vanta a Taiwan, ma far sì che intorno al 2030 non più del 50-60% dei semiconduttori più avanzati vengano prodotti nell’isola al largo della Cina. Se si considera, inoltre, che anche Samsung e Intel si sono impegnate a investire massicciamente in Texas, Ohio e Arizona per quella data, gli Stati Uniti dovrebbero essersi assicurati una quota consistente della produzione mondiale.

Intel ha annunciato investimenti analoghi in Germania, mentre il Giappone intende a sua volta investire in questo settore d’avanguardia attraverso un nuovo consorzio. In altre parole, attraverso onshoring e friendshoring (trasferimento della produzione in paesi alleati), gli Usa intendono ridurre l’importanza di Taiwan nel settore e isolare ulteriormente la Cina. Per Taipei questa non è una buona notizia. Finora, l’importanza vitale della Tsmc per l’economia mondiale ha in qualche modo rappresentato per Taiwan un salvavita, un elemento di deterrenza che scoraggiava sia Pechino che Washington dal coinvolgere l’isola in un conflitto armato. Un’alterazione di questo equilibrio e un ridimensionamento della rilevanza mondiale della Tsmc renderebbero l’isola più facilmente sacrificabile in un’eventuale (e ancor più pericolosa) riedizione sino-americana dell’attuale conflitto, che vede l’Ucraina come pedina nello scontro Usa-Russia. Le conseguenze di un simile scontro armato rimarrebbero però disastrose per il mondo intero, inclusa la possibilità di una guerra nucleare.

*Autore del libro “Se Washington perde il controllo. Crisi dell’unipolarismo americano in Medio Oriente e nel mondo” (2017)

Twitter: @riannuzziGPC
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