Una vita lunga e piena come tutti gli altri. In altre parole quasi “normale”, cioè come quella di chi non ha avuto la sfortuna di imbattersi contro l’Hiv. È questo il traguardo più importante raggiunto dopo decenni passati a sognare di realizzare un vaccino in grado di prevenire o curare l’Aids. Il vaccino non è ancora arrivato (una sperimentazione è partita a inizio 2022) e chissà quando lo farà, ma nel frattempo le terapie si sono talmente evolute che, se seguite adeguatamente, si può arrivare ad abbassare la carica virale annullando di fatto le probabilità di sviluppare la malattia e di contagiare gli altri. L’evoluzione delle terapie non hanno solo portato a una maggiore efficacia nel controllo dell’Hiv, ma anche a una minore “invasività” della terapia stessa, che evita anche lo stigma. Se prima una persona sieropositiva era costretta ad assumere quotidianamente oltre una decina di farmaci, poi diventati 2-3, oggi bastano solo 6 iniezioni l’anno.

Un vero e proprio cambiamento rivoluzionario, su cui di recente ha puntato i riflettori il celebre scrittore Jonathan Bazzi che proprio di recente ha iniziato a seguire le cosiddetta terapia long lasting. In pratica consistono nell’iniezione ogni due mesi di un farmaco che contiene due principi attivi che inibiscono alcune funzioni del virus Hiv, un inibitore dell’integrasi e un inibitore della trascriptasi inversa. Una possibilità, questa, accessibile solo al 50 per cento o anche meno dei pazienti. Più precisamente a coloro che non abbiano registrato fallimenti nelle precedenti terapie, che abbiano contratto un’infezione da Hiv che non presenti resistenze ai farmaci long-acting o che non siano risultati positivi da troppo poco tempo. Ma si tratta comunque di un risultato molto positivo, soprattutto visto che probabilmente, fra non molto tempo, le iniezioni potrebbero alla fine ridursi anche a una ogni 6 mesi.

Ma se sul fronte delle terapie le notizie sono molto buone, lo sono invece molto meno quelle sulla circolazione del virus dell’Hiv. Il “mostro” c’è e continua a diffondersi ed è fondamentale ricordarlo, come ogni anno, in occasione della Giornata Mondiale contro l’Aids, che si celebra il prossimo 1 dicembre. Perché, anche se si parla sempre poco di Hiv, questo virus continua a essere una minaccia alla salute globale. Secondo le Nazioni Unite, nel 2021 ben 38,4 milioni di persone nel mondo sono risultate sieropositive, 650mila sono morte per malattie legate all’Aids e 1,5 milioni sono le persone contagiate di recente. “L’Hiv rimane un importante problema di salute pubblica che colpisce più di 2 milioni di persone nella regione europea dell’Oms”, dichiara l’Organizzazione mondiale della sanità in vista della Giornata Mondiale dell’Aids. “Negli ultimi anni, i progressi verso gli obiettivi dell’Hiv si sono fermati, le risorse si sono ridotte e di conseguenza numerose vite sono a rischio. La disparità di accesso ai servizi sanitari, e in particolare ai servizi per l’Hiv, e il disprezzo per i diritti umani – aggiunge – sono tra i fallimenti che hanno permesso all’HIV di diventare e rimanere una crisi sanitaria globale”.

Nel nostro paese l’incidenze delle infezioni con tre nuovi casi ogni 100mila residenti è al di sotto della media dell’Unione Europea che è di 4,3 nuovi casi per 100mila. In totale, nel 2021 sono state registrate 1.770 nuove diagnosi, più di frequente nei maschi tra i 30 e i 39 anni d’età e per oltre l’80 per cento dei casi il contagio è avvenuto tramite rapporti sessuali. Il dato però più allarmante, diffuso dal Centro operativo Aids dell’Istituto superiore di sanità, è la tempestività con cui si arriva alla diagnosi: ancora in troppi (63%) scoprono l’infezione quando questa è in fase avanzata. L’emergenza Covid potrebbe in qualche modo aver giocato un ruolo importante nel rallentamento dei contagi, ma anche su un eventuale sottodiagnosi.

La pandemia “ha sicuramente influito sull’andamento della diffusione dell’infezione da Hiv”, sostiene Massimo Galli, già direttore del reparto di Malattie infettive dell’Ospedale Sacco di Milano. “Il periodo Covid, con le restrizioni e il distanziamento sociale, ha infatti ridotto i contatti tra le persone e questo ha diminuito anche le nuove infezioni. La Covid – aggiunge – ha però avuto un ruolo negativo nel ritardare alcune diagnosi, con la rinuncia ai test”.
Preoccupato per le diagnosi tardive anche Stefano Vella, docente di salute Globale all’università Cattolica di Roma e presidente della sezione L (ricercatori esperti della materia) del comitato tecnico scientifico per l’Aids del ministero della Salute. “Le diagnosi tardive – dice – non avrebbero ragione di esistere oggi. Mentre i decessi di persone con Aids, seppure stabili con 500 casi l’anno, ci ricordano che è un falso mito l’idea che nei Paesi ricchi non si muore più per questa malattia perché si può accedere ai farmaci specifici”. Il grande problema “restano le diagnosi tardive, perché quando l’infezione viene individuata tardi le conseguenze per il paziente sono peggiori”, specifica Vella.

È bene, inoltre, ricordare che se anche le terapie hanno rivoluzionato l’andamento dell’infezione, è la prevenzione a rimanere ancora l’obiettivo più importante da raggiungere. “È vero che le terapie hanno rappresentato un passo avanti epocale”, ammette Vella. “Ma ciò non toglie che la qualità della vita di chi si ammala ne risente. Il fatto di avere tanti farmaci e sapere molto di più sulla malattia dovrebbe aiutarci a non arrivare più alla malattia stessa. E non ci dovrebbero essere morti. Purtroppo i numeri non ci dicono questo”, conclude.

30science per il Fatto

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