C’è finalmente un’inversione di rotta? La pandemia si avvia verso una lenta fase calante? Le domande sono legittime dopo gli ultimi dati del bollettino settimanale dell’Oms, che tranne rare eccezioni, segna un calo del 15% dei contagi e del 10% dei morti. Nel mondo Sars Cov 2 – in tutte le sue “forme” – ha contagiato ufficialmente quasi 635 milioni di persone nel mondo e ne ha ucciso 6.5 milioni, anche se sono cifre probabilmente più basse del dato reale. La vera novità rispetto a qualche mese fa quando già si pensava che il coronavirus finalmente allentando la sua morsa arriva dalla Cina che, dopo quasi tre anni di tolleranza zero e feroci lockdown, ha annunciato un allentamento di alcune misure per arginare il Covid 19. In particolare una riduzione della quarantena all’arrivo nel Paese, che passa da dieci a otto giorni. Viene abolito inoltre l’obbligo di identificazione e isolamento per “contatti secondari”. Un piccolo grande passo in avanti per il paese asiatico che ormai è l’ultima grande economia a mantenere una rigorosa politica sanitaria per il coronavirus, con confini che rimangono chiusi alla maggior parte dei cittadini stranieri. Il calo delle infezioni, come aveva spiegato al fattoquotidiano.it l’epidemiologo dell’Iss Patrizio Pezzotti, era atteso, stando alla copertura vaccinale, da rinforzare per i soggetti fragili e gli anziani, e alla contagiosità di Omicron e tutte le sottovarianti, una specie di tsunami. Il dato essenziale è che la variante, che fu isolata per la prima volta in Sudafrica, ormai ha compiuto un anno. E nonostante Omicron sia mutata varie volte tutte sottovarianti fanno parte della linea evolutiva iniziata un anno fa.

Per il virologo Massimo Clementi, professore emerito dell’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano però si potrà parlare di un inversione della rotta della pandemia quando “per almeno due mesi questi dati saranno consolidati. Allora potremo dire che questa infezione sta diventando endemica. Ce la ritroveremo ogni inverno insieme agli altri virus dell’apparato respiratorio”. Per lo scienziato il trend in calo non è “l’unico segnale” c’è anche un indizio di ritorno alla normalità ovvero il ritorno dell’influenza e del virus sinciziale. “Per due inverni o quasi non abbiamo avuto l’influenza, il virus iperdominante era Sars Cov 2. L’allentamento della pandemia fa riemergere virus che ci sono sempre stati. Abbiamo anche registrato i raffreddori causati dai coronavirus a noi noti da tempo”. Un altro elemento è la persistenza di Omicron: “È stata una benedizione in realtà perché è un virus che ha cambiato il paradigma: prima di Omicron avevamo moltissimi casi seri con molte polmoniti e un vaccino che in parte funzionava anche nel proteggerci dall’infezione, con l’arrivo di Omicron (molto diffusivo) l’infezione è cambiata: meno polmoniti se non nei soggetti debilitati. L’altra novità è stato il contagio dei vaccinati protetti dalla malattia grave”. Omicron è stato uno spartiacque e grazie alla circolazione ha immunizzato tantissime persone che non sono entrate nei bollettini ufficiali.

L’ottimismo però non è ammesso del tutto. Clementi avverte che bisogna stare sempre attenti, “dobbiamo fare attenzione perché nel mondo c’è circa 1 milione e mezzo di virus animali sconosciuti di questi circa la metà sono in grado potenzialmente di infettare l’uomo”. Tra questi c’è l’aviaria definita dallo scienziato una “spada di Damocle”, perché le specie aviarie selvatiche (anatre, aironi) possono infettare le specie che alleviamo e da lì può arrivare all’uomo. Ma non è l’unica.

Ma quali sono i criteri allora per definire la fine della pandemia? Per molti epidemiologi manca una regola di riferimento per poter stabilire che la catena si è spezzata. Un livello accettabile di decessi e casi? Per Clementi spetta all’Oms stabilire i criteri, ma un momento potrebbe essere quello in cui non più in tutto il mondo vengono segnalati casi, “una situazione a pelle di leopardo, con alcune realtà dove l’epidemia si spegne e altre dove continua, ma non siamo ancora a quel livello”. Certo è che la risposta immunitaria dell’uomo al virus è diventata più forte, grazie alla vaccinazione e/o agli anticorpi sviluppati a seguito dell’infezione come ha spiegato più volte Eric Topol, fondatore e direttore dello Scripps Research Translational Institute in California, che però ammonisce: “Il virus è ancora avanti a noi”. Qualche segnale di preoccupazione arriva anche rispetto all’emergere di nuove varianti come la XBB, o Gryphon, considerata la più capace di eludere gli anticorpi. Preoccupa inoltre un nuovo studio sugli esiti delle reinfezioni condotto dalla Washington University School of Medicine in St. Louis e pubblicato sulla rivista Nature Medicine: “Le infezioni ripetute da SarsCoV2 – rileva la ricerca – aumentano il rischio di danni d’organo, raddoppiano il rischio di morte e triplicano quello di ricovero ospedaliero”. Nel maggio del 2020 uno studio di Harvard pubblicato su Science ipotizzava, usando un modello previsionale con l’analisi del comportamento di quattro betacoronavirus, recrudescenze del virus fino al 2024 o 2025. Magari invece l’anno giusto sarà il 2023.

Lo studio su Science

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