Per molti anni, dal 1995 al 2008, M.N. ha passato ore e ore al telefono cellulare ogni giorno per lavoro. Nato nel 1959, è stato a lungo operaio specializzato e poi responsabile di un reparto di un’acciaieria valdostana. A causa di un grave trauma sul lavoro era diventato sordo all’orecchio destro e per questo appoggiava il telefonino all’orecchio sinistro. Poi, nel 2009, ha scoperto di avere un tumore, un neurinoma del nervo acustico, proprio sul lato sinistro della testa, e ha perso definitivamente l’udito. Sostenendo che quel male era stato provocato dall’uso del cellulare, ha fatto causa all’Inail (Istituto nazionale per l’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro) per vedersi riconosciuta l’invalidità da malattia professionale: lo scorso 2 novembre, la Corte d’appello di Torino ha condannato l’ente.

Secondo quanto ricostruito dai giudici sulla base delle testimonianze, l’ex operaio passava almeno tre ore al giorno al telefono, più un’eventuale ora fuori dall’orario di lavoro perché doveva essere reperibile. Aveva usato per quasi dieci anni telefonini con “tecnologia Etacs, caratterizzata da livelli di emissione di radiofrequenze enormemente superiori a quelli dei telefoni cellulari GSM 2G, entrati in uso dopo il 2005” e aveva avuto una “esposizione lavorativa, per non meno di 10.361 ore dal 1995 al 2008, a radiofrequenze da utilizzo di telefono cellulare con tecnologia Etacs fino al 2005”.

Di sentenze che legano l’utilizzo massiccio di telefonini (specialmente quelli di vecchia tecnologia) allo sviluppo di tumori ce ne sono già state e spesso sono state accolte con scetticismo da alcuni esperti, secondo i quali non possono essere i giudici a stabilire se esista un nesso o no. D’altronde, la letteratura scientifica non è ancora unanime: “Da una parte, l’Agenzia internazionale per la ricerca sul cancro (Iarc), facente parte dell’Organizzazione mondiale della sanità, il 31 maggio 2011 ha reso nota una valutazione dell’esposizione a campi elettromagnetici ad alta frequenza, definendoli come ‘cancerogeni possibili per l’uomo’ – è riassunto nella sentenza – ; dall’altra, lo studio Interphone individua un eccesso di rischio statisticamente significativo di sviluppare un neurinoma dell’acustico solo negli individui che abbiano usato il cellulare molto a lungo e per molto tempo (superiore a 1.640 ore), ma la Corte di cassazione ha definito tale studio non particolarmente attendibile per essere stato cofinanziato dalle stesse ditte produttrici di cellulari”.

Questa causa giudiziaria, però, appare diversa: “È una sentenza frutto di un confronto tra scienziati e non una sentenza di giuristi che si sostituiscono alla scienza”, spiegano gli avvocati Renato Ambrosio e Stefano Bertone che hanno assistito l’ex operaio insieme ai colleghi Chiara Ghibaudo e Jacopo Giunta. Lo affermano perché la Corte d’appello di Torino, anziché compiere una nuova valutazione sugli atti del tribunale di Aosta (che nel 2020, in primo grado, aveva condannato l’Inail), ha chiesto un nuovo parere a uno specialista in otorinolaringoiatria, audiologia e foniatria, il professore ordinario dell’Università di Torino Roberto Albera, autore di 400 pubblicazioni e di 10mila interventi chirurgici, tra i quali quasi duecento sui neurinomi.

“Per quanto attiene l’etiologia del neurinoma dell’acustico, nella sua forma sporadica, ho ricordato come a oggi non vi sia ancora alcuna certezza anche se sono stati ipotizzati alcuni fattori favorenti per il neurinoma sporadico”, come l’esposizione al rumore, i fattori genetici o l’allergia, ha spiegato il professore. “Sulla base di studi sperimentali su animali da laboratorio è possibile ritenere che le radiofrequenze possano essere considerate oncogenetiche (che sviluppano tumori, ndr), ma i dati sperimentali non sono necessariamente applicabili all’uomo”, annota il professore Albera. Questi dati sono quindi “criticabili circa l’applicazione sull’uomo, ma certamente probativi di un effetto patogeno sul tessuto nervoso”. La certezza che l’uso del cellulare abbia provocato il tumore non c’è, ma è “elevata la probabilità” e questo basta alla Corte per riconoscere all’uomo un indennizzo maggiore rispetto a quello stabilito dal tribunale in primo grado.

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