Uno dei misteri della fase preparatoria delle stragi del 1992 è finito al centro della requisitoria del processo d’Appello a Matteo Messina Denaro. A parlarne è stato il procuratore generale di Caltanissetta Antonino Patti, che rappresenta l’accusa al procedimento di secondo grado al boss di Castelvetrano, accusato di essere il mandante delle stragi di Capaci e via d’Amelio. Già condannato per le stragi del 1993, infatti, fino a pochi anni fa Messina Denaro non era stato mai processato per le eliminazioni di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. “Tra i motivi dell’Appello della Corte di Assise d’Appello di Catania del 2006 si dice che la missione romana fu un astuto espediente per distogliere i sospetti da Cosa nostra e far credere che fossero stati i servizi segreti deviati. Ma non è così, allora alcune cose non si sapevano ma la missione romana era una cosa seria che alla fine fallì”, ha detto Patti, chiedendo alla Corte d’Assise d’Appello a Caltanissetta di confermare la sentenza di primo grado, cioè l’ergastolo per l’ultimo superlatitante di Cosa nostra.

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La cosiddetta missione romana risale alla fine del febbraio del ’92, quando Totò Riina inviò nella capitale un ristretto gruppo di uomini d’onore guidato da Messina Denaro e Giuseppe Graviano: erano i componenti della cosiddetta Supercosa, la risposta del boss corleonese alla Superprocura, cioè la Direzione nazionale antimafia che era stata inventata da Falcone. Il magistrato poi ucciso a Capaci era l’obiettivo della missione romana, insieme a Maurizio Costanzo. “Si parla di totale superficialità e inadeguatezza di Riina nell’organizzare la missione romana e che ha fatto affidamento a persone non tutte di rilevante calabro mafioso. Ma ci aveva mandato le persone più importanti, come Giuseppe Graviano, che è un capomandamento, così come Matteo Messina Denaro – ha detto Patti – Non è affatto vero, poi, che nel sestetto romano c’era gente che non sapeva mettere mano sugli esplosivi. Riina a Falcone lo avrebbe ucciso ovunque, anche sulla Luna. Lo dice lui stesso in un’intercettazione”.

Nella Capitale Falcone si muoveva spesso senza scorta. Ai mafiosi inviati da Riina avevano detto che Falcone andava spesso a mangiare al Matriciano, in via dei Gracchi, nei pressi della corte di Cassazione. Lì però i boss non lo trovano perché quell’informazione è falsa: il giudice a Roma andava spesso a mangiare a Campo dei fiori, al ristorante La Carbonara, un posto che ha il nome di un altro piatto tipico della cucina romana. Quello è un errore banale, quasi comico. È un errore che forse cambia la storia delle stragi. Dopo pochi giorni, infatti, il capo dei capi annulla tutto: richiama i suoi e gli spiega che bisogna tornare in Sicilia, dove avevano trovato “cose più grosse”. Quali? Il pentito Gaspare Spatuzza individua in quel cambio di strategia un passaggio fondamentale: “La genesi di tutta questa storia è quando non si uccide più Falcone a Roma con quelle modalità e si inizia quella fase terroristica mafiosa, da lì non è solo Cosa nostra”. Ma se non è solo Cosa nostra allora cosa altro è? I misteri della missione romana sono raccontati in Mattanza, il podcast sulle stragi del ’92 prodotto dal Fatto Quotidiano.

“Riina per portare a termine le stragi aveva bisogno di circondarsi di fedelissimi. La strategia deliberativa ha seguito i passaggi previsti dal codice di Cosa Nostra, per cui per gli omicidi eclatanti bisognava avere il consenso degli organi provinciali, ma in realtà nessuno si sarebbe permesso di contraddire Riina che è un dittatore e solo con alcuni condivide la decisione delle stragi. Questa responsabilità Riina la condivide con Giuseppe Graviano e Matteo Messina Denaro“, ha detto l’avvocato Fabio Trizzino, legale della famiglia Borsellino. “Riina era un soggetto che, a parere mio – ha aggiunto il penalista – non si fidava nemmeno di sua madre eppure questi due soggetti, Messina Denaro e Graviano erano nel suo cuore. E lo attesta il loro protagonismo nella deliberazione della strategia stragista”. L’avvocato dei Borsellino ha poi aggiunto: “Riteniamo che non ci siano più le condizioni per un accertamento giudiziario completo di quello che è accaduto in quella stagione stragista. Ma ci batteremo fino alla morte per la ricostruzione storica che non risente del tempo e delle regole processuali”.

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