In questi giorni molto si sta dibattendo sulla prima donna che ha rotto il “soffitto di cristallo”. La prima domanda da porsi è prima di tutto cosa intendiamo per “soffitto di cristallo”. Se con questo termine intendiamo che una donna sola è riuscita ad arrivare ad una posizione mai raggiunta prima da altre, sicuramente dobbiamo ammettere che Giorgia Meloni prima Presidente del Consiglio questo traguardo lo ha conseguito. Se allarghiamo però il senso della definizione di questa metafora coniata nel 1978 da Marilyn Loden e le diamo un significato di più ampio respiro, capiamo che questo fenomeno invisibile (orma non più tanto… invisibile) riguarda l’insieme di barriere sociali, culturali, di stereotipi che formano una cultura patriarcale che ha fatto sì che ancora non sia raggiunta, in ogni campo, una parità dei diritti fra uomo e donna.

La differenza non è di poco conto perché, come scrive Giorgia Serughetti, quello di Meloni “è un modello di emancipazione individualistico che non promuove nessun empowerment collettivo, mentre rimuove la storia delle donne che l’hanno preceduta”. E d’altronde Meloni e molte donne di destra hanno da sempre avversato le “quote” e le azioni positive per promuovere pari opportunità fra uomo e donna e per rimuovere gli ostacoli che limitano di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, così come previsto dalla nostra Costituzione.

C’è in questa negazione della necessità di interventi che aiutino le donne a rimuovere ostacoli sia culturali sia legislativi, per arrivare ad una concreta parità, una completa adesione al modello patriarcale, che si riscontra anche nel rifiuto ad usare un linguaggio corretto dal punto di vista del genere per i ruoli apicali, nel ribadire che la leadership si conquista con le stesse modalità usate dagli uomini, nel riaffermare un’ideologia conservatrice e sovranista della maternità e della famiglia, nel contornarsi di molti uomini e nel dare poco spazio alle donne: basti pensare che nel primo governo presieduto da una donna le ministre sono solo 6 su 24 ministeri.

Giorgia Meloni ha sicuramente dimostrato capacità e fermezza nel “tenere a bada” due uomini, nel portare avanti la formazione di un governo non cedendo a richieste e “ricatti”, ma lo ha fatto con uno stile e una cifra assolutamente maschili e maschilisti.

Se Sparta piange però Atene non ride, perché il patriarcato e il maschilismo sono presenti anche a sinistra. A parole infatti si fa grande professione di femminismo, nei fatti poi si continuano a praticare metodi di cooptazione delle donne per promuoverle in ruoli apicali, si persevera nella pratica delle pluricandidature che sono lo strumento odioso con cui apparentemente si favoriscono le donne, ma in realtà si eleggono più uomini (facile con questa orribile legge elettorale che permette un controllo e una scelta pressoché assoluta sui candidati e candidate); non si attuano politiche incisive nei confronti delle donne e si ricandidano persone che sui temi sensibili e su sacrosante e legittime richieste di applicare e promuovere leggi che tutelino le donne e che abbattano le discriminazioni sono, per dirla con un eufemismo, “molto tiepidi” (un esempio per tutti i diritti sessuali e riproduttivi, la concreta applicazione della legge 194 e la contraccezione gratuita ancora un miraggio per la maggior parte delle donne nel nostro Paese).

E stride l’immagine di Enrico Letta, segretario del Pd, che sale al Quirinale per le consultazioni, unico uomo della delegazione; stride perché non rispecchia la realtà di quel partito in cui il potere è ancora saldamente solo nelle mani di uomini e dove le donne non riescono ad agire quel conflitto assolutamente necessario per trasformare realmente il partito in un partito femminista.

Pur non volendo neppure lontanamente equiparare le politiche e le azioni positive che governi di destra e sinistra hanno proposto in questi ultimi anni, si fa fatica a pensare agli attuali partiti progressisti come partiti che hanno il tema della parità nel loro Dna. In questo sconfortante panorama si potrebbe pensare che il movimento delle donne sia unito, battagliero, convinto che solo riuscendo a fare massa critica si possa realmente incidere sulle politiche del Paese, considerando che ne siamo la maggioranza.

E invece no. La grande sfida che fu di SeNonOraQuando?, i tentativi di “Dalla stessa parte” o di iniziative analoghe, nate per costruire un modello di sviluppo a misura di donne e uomini, in cui le donne, tutte le donne siano protagoniste, sono miseramente falliti perché tutte più preoccupate a difendere la propria identità, a coltivare il proprio orticello che a combattere contro il nemico comune.

Dovremmo prendere esempio dalla resistenza delle donne iraniane e in generale di tutti i femminismi islamici, o dalle donne colombiane che sono state al centro delle lotte per la democrazia, o in generale dal movimento femminista in America Latina che è sicuramente una delle espressioni più critiche contro le politiche dei governi di quell’area; o ancora dalle donne polacche scese più e più volte in strada per contrastare le politiche antiabortiste di quel governo.

La forza di queste donne deriva loro dalla compattezza nel trovare obiettivi comuni per contrastare le decisioni politiche antidemocratiche dei loro Paesi, deriva dalla solidarietà che nasce in contesti dove la privazione della libertà e dell’autodeterminazione è una situazione radicata da decenni se non da secoli, deriva dal vivere in Paesi in cui lo stato di diritto non è garantito e i diritti civili non sono mai stati salvaguardati.

Dobbiamo arrivare a questo perché il movimento delle donne in Italia si ricompatti? Credo che il momento per farlo sia ora!

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