Nel carcere di Regina Coeli ho incontrato l’uomo che dorme. Era all’inizio dello scorso giugno, ma so che lui è ancora lì. In questi mesi ho chiesto notizie, spiegazioni, soluzioni. Ma non sono riuscita ad arrivare a capo di nulla.

L’uomo ha 28 anni ed è originario del Pakistan. L’ho incontrato in una stanza di degenza del centro clinico del carcere. Dormiva. O comunque era sdraiato sul letto, a occhi chiusi e immobile.

L’infermiere mi ha spiegato che il ragazzo dorme sempre. Lui gli svuota il catetere, gli cambia il pannolone, gli infila un po’ di cibo liquido in bocca che l’uomo deglutisce in maniera meccanica. Gli ho domandato da quanto tempo il ragazzo si trovasse in quelle condizioni. Alcuni mesi, mi è stato risposto.

Il personale del carcere che mi accompagnava in visita si riferiva a lui con l’appellativo di “simulatore”. Ho chiesto il perché e mi è stato detto che i vari controlli medici – molti, anche esterni al carcere, presso l’ospedale Sandro Pertini dove il ragazzo è stato più volte ricoverato – non hanno mai riscontrato nulla di oggettivo. Ho provato a dire che la simulazione è un comportamento che viene messo in atto intenzionalmente e che nessuno simulerebbe mesi di morte apparente. Mi sono chinata sul volto del ragazzo e gli ho parlato all’improvviso e ad alta voce. Non ha mosso un muscolo della faccia. Ho chiesto al suo compagno di stanza se per caso lo avesse mai colto ad alzarsi dal letto per sgranchirsi le gambe, magari in piena notte quando credeva di non essere osservato. Mi ha risposto di non averlo mai visto con gli occhi aperti e non aver mai sentito la sua voce. Stava solo così, sdraiato nel letto a occhi chiusi, a ogni ora del giorno e della notte.

Il ragazzo non ha ancora una sentenza definitiva e nelle settimane passate, secondo quanto mi è stato raccontato durante la mia visita, si erano tenute alcune udienze del processo che lo riguarda. Ma il ragazzo dorme. Quando gli viene domandato se intende rinunciare a presenziare in tribunale, lui semplicemente dorme. Non risponde, né tantomeno afferra una penna per firmare il modulo apposito. Dorme e basta. E la presenza al processo è un diritto procedurale che non si può negare se non su esplicita rinuncia. L’uomo veniva quindi adagiato su una barella, portato in tribunale e fatto stare lì, nell’aula dove si teneva l’udienza, addormentato e immobile, con il suo catetere e il suo pannolone, mentre i magistrati facevano il loro lavoro, per poi essere riportato nella sua stanza del carcere.

Il ragazzo non ha nulla di oggettivo dal punto di vista medico. Quindi non c’è nulla che si possa fare per lui: non un provvedimento di incompatibilità con il carcere per motivi di salute, non un trasferimento in luogo di cura.

I medici davvero si sono impegnati a cercare di capire la situazione dal punto di vista clinico, non ho motivo per dubitarne. Sono andata all’ufficio matricola del carcere per chiedere informazioni e ho visto con i miei occhi quante volte colui che anche qui continuavano a chiamare “il simulatore” sia stato condotto in strutture esterne nella speranza di una diagnosi. Figure apicali del carcere in queste settimane si sono dedicate con grande impegno a cercare di individuare una soluzione praticabile. Ma sembra non esserci. E il ragazzo è lì, che dorme. Da mesi e forse per mesi.

“Hai cambiato il pannolone al simulatore?”, “va pulita la cella del simulatore”, “il simulatore deve andare all’udienza”. La colpa non è di nessuno in particolare. Ma in un sistema che può tollerare la presenza dell’uomo che dorme in una cella al centro di Roma c’è qualcosa che non funziona.

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