I nostri padri costituenti scelsero a ragion veduta di declinare al plurale quelle pene che secondo il terzo comma dell’art. 27 “devono tendere alla rieducazione del condannato”. Eppure il codice penale, che la Repubblica italiana ha ereditato dal fascismo e mai sostituito, prevede il carcere come pena quasi esclusiva. In questa contraddizione continuiamo a vivere da circa tre quarti di secolo, senza che mai si sia riusciti a introdurre pene differenziate che il giudice potesse avere a disposizione fin dal momento della sentenza. La riforma approvata dal governo alla fine di settembre su proposta della ministra Marta Cartabia contiene alcune novità che finalmente vanno in questa direzione.

Mi riferisco in particolare all’introduzione di sanzioni sostitutive non previste prima dall’ordinamento. Fino a oggi il giudice di merito – quello che accerta i fatti e decide se condannare o meno le persone imputate – può nelle proprie sentenze comminare quasi solamente la pena carceraria. È poi il giudice di sorveglianza – quello che interviene quando c’è già sul piatto una pena da gestire, decidendo in merito alla condotta tenuta dal condannato e ai possibili percorsi di reintegrazione sociale – a scegliere eventualmente di trasformare pezzi di detenzione in una qualche misura alternativa al carcere.

La riforma voluta da Cartabia introduce, tra le molte altre cose, la possibilità di condannare già in sentenza a sanzioni sostitutive diverse dal carcere quando si tratta di reati non gravi. Quei procedimenti penali che sarebbero scaturiti in condanne a meno di quattro anni di detenzione possono oggi vedere in sentenza una condanna alla semilibertà, alla detenzione domiciliare, al lavoro di pubblica utilità. La semilibertà prevede che la persona trascorra in carcere un minimo di otto ore al giorno, tendenzialmente quelle notturne, così da poter uscire durante il giorno per svolgere attività lavorativa o di altro tipo (va però detto che meglio sarebbe stato il ricorso all’affidamento in prova ai servizi sociali, come pure proposto autorevolmente in passato, che non presuppone un posto letto in carcere); la detenzione domiciliare comporta l’obbligo di rimanere in casa almeno dodici ore al giorno; il lavoro di pubblica utilità, che lascia più perplessi, è la prestazione di attività non retribuita in favore della collettività.

Come universalmente riconosciuto e sostenuto da tutti gli organismi internazionali, le detenzioni brevi o brevissime comportano un grande costo sociale a fronte di risultati assai peggiori rispetto ad altri tipi di punizione. Di fronte a reati non gravi, la frattura che il periodo di detenzione costituisce nel flusso ordinario della vita individuale contrasta con ogni risultato atteso dalla pena (la risocializzazione della persona, la lotta alla recidiva). De-socializzare qualcuno per poi doverlo risocializzare è particolarmente inutile quando si tratta di brevi periodi di pena. Il detenuto interrompe il rapporto di lavoro, interrompe il percorso di istruzione o di formazione, allenta i legami famigliari, si estranea dal proprio centro di riferimento sociale.

Sanzioni diverse da quella carceraria, che vengono scontate all’interno della comunità, possono avere effetti ben migliori in termini di tutela della sicurezza pubblica. Questo intervento normativo andrà inoltre a sanare quella patologia del sistema costituita dai cosiddetti “liberi sospesi”. Oggi chi riporta una condanna al di sotto dei limiti prescritti dalla legge può chiedere una misura alternativa dalla libertà. In attesa che il magistrato di sorveglianza prenda la sua decisione, la persona non va in carcere ma neanche inizia a scontare la pena.

Visto il grande carico di lavoro degli Uffici di sorveglianza, si è sempre andati enormemente al di là del termine previsto di 45 giorni, lasciando le persone in questo stato di limbo spesso per anni. L’esigenza di superare il primato del carcere nel sistema sanzionatorio è concreta e niente affatto relegata a sentimenti da anima bella. Il carcere costa, il carcere produce recidiva e dunque insicurezza, il carcere rinchiude disagio sociale, psichiatrico, economico, sanitario che ben dovrebbe essere gestito con altri strumenti. La riforma approvata è un passo avanti nella giusta direzione.

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