Si fa largo una preoccupazione strisciante: sul fronte critico-pacifista “non si parla della guerra”, o “si fa come se non ci trovassimo di fronte all’abisso”. A me pare invece che sia diventato inutile parlarne: ci si è sgolati nel cercare di dire che occorre pensare la pace, ma nessuno ha ascoltato. Paradigma di questo profetismo disarmato è Francesco. Il pontefice romano è infatti percepito, con malcelato fastidio, come ‘ambiguo’, in quest’epoca di estrema polarizzazione manichea. Ed è, come insegnava Machiavelli, destinato a ‘ruinare’. Ma solo il profeta inascoltato rovina, o con esso rischiamo di rovinare anche noi?

Ci troviamo di fronte, infatti, alla più netta rappresentazione della fine del momento unipolare, quella fase storica in cui gli Stati Uniti governavano il mondo dopo la fine della Guerra fredda e in cui un conflitto tra blocchi contrapposti sembrava ormai un’opzione del tutto implausibile. Quella fase sembra essere tramontata per sempre proprio con l’aggressione russa dell’Ucraina, che ha portato una guerra a bassa intensità al suo parossismo globale, con il coinvolgimento – che si chiama in un solo modo: cobelligeranza – dell’Occidente intero.

Si dirà, da parte di coloro che mal sopportano la parola ‘pace’, ridotta a fastidiosa vox clamantis di imbelli irenisti: “Abbiamo ascoltato, ma non siamo d’accordo”. Ma se questa critica potrebbe valere per il necessario pacifismo radicale cattolico, essa non assume che possa esistere un pacifismo realista, che si sobbarchi – al di là di ogni opzione di pacifismo assoluto, moralmente nobile ma irrealizzabile – anche l’onere di valutare i rischi. Consci del fatto che non una sola pace esiste: esiste la pace piena come ristabilimento della giustizia, ma esiste una pace-tregua come prima fase, sospensione delle ostilità.

Si userà di nuovo l’argomento dell’appeasement: “Non si può cercare la pace di fronte a un’aggressione illegittima”. Ma l’analogia con Monaco ’38 non soltanto è indebita (come dimostra il suo uso da parte dei neoconservatori statunitensi con altri dittatori a vario titolo – non sempre legittimo – eliminati, da Milosevic a Saddam Hussein, o non eliminati, la Russia sovietica), ma non è corretta sul piano storico, perché a Monaco non incombeva la minaccia atomica. L’esistenza dell’arma atomica e la minaccia del suo uso rendono, realisticamente, chi le agita il detentore di una trump card che ha solo una risposta: l’inveramento della Mad, mutually assured destruction.

Allora, bisogna provare a prevenire le obiezioni di chi dica: “Bisogna cedere al prepotente?”. Se la risposta non è cercare la pace, l’unica altra – e da qui quel silenzio annichilito che ci viene imputato – è mettersi sulla scia di Putin, sfidarlo sul terreno della distruzione reciproca assicurata, e buonanotte mondo.

Perché se la pace, soprattutto nella sua riduzione macchiettistica a pulsione sconfittista e testimoniale (che pure esiste, beninteso), è impotenza, ciò che si evince dalla riflessione che stiamo conducendo è la speculare impotenza della guerra, la coazione al conflitto bellico. Ecco, per chi non ha risposte, può essere utile cercare di fare qualche domanda: come finisce la guerra? Perché tutti tifiamo per la liberazione dell’Ucraina. Ma come? Se la guerra finisce solo se Zelensky riconquista i territori usurpati nel 2022, o anche la Crimea assieme a essi, allora quel nostro domandare porta a emersione – maieuticamente – il nocciolo autentico indicibile di tale posizione: “Sì, la guerra ci ha reso impotenti, è l’unica opzione che siamo in grado di pensare. Anche al costo di accettare il rischio dell’uso dell’atomica”. Si abbia allora il ‘coraggio’ di dire “sia fatta giustizia e perisca il mondo”, che è l’esatto speculare del pacifismo radicale, ma con la medesima conseguenza.

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