Settant’anni, e li dimostra tutti. I suoi primi settant’anni… Brutto compleanno, oggi, per Vladimir Vladimirovic Putin, classe 1952: le cose non gli vanno bene come sperava, tutto è in ribasso. Per esempio il regalo, letteralmente sottratto al legittimo proprietario, ossia l’Ucraina: la centrale nucleare di Zaporizhzhia, annessa e repertoriata da oggi tra le proprietà della Federazione russa. Insomma, bottino di guerra: dono meschino. Ben diverso quello del 7 ottobre 2006: quale gradito omaggio per il suo 54esimo genetliaco, zelanti killer avevano ammazzato la grande e coraggiosa giornalista Anna Politkovskaja, che nei suoi articoli e soprattutto nei suoi libri aveva ampiamente documentato e denunciato la corruzione del regime putiniano e le atrocità commesse nella seconda guerra cecena. Anna descrive i ladrocini dell’apparato repressivo poliziesco instaurato dall’ex tenente colonnello del Kgb, le impunità dell’esercito (la società civile russa non ha alcuna possibilità di controllare e verificare ciò che fanno i militari).

La Politkovskaja svelava la democrazia farlocca (e assai corrotta) di Putin e dei suoi accoliti, i cui più stretti collaboratori vengono tutti dai servizi segreti. Tempo fa, il Financial Times scrisse che questa élite del potere, “per quanto spietata, avida e cinica”, credeva e magari crede ancora fermamente nell’idea della grandezza russa. A spese del mondo. E dei loro stessi concittadini… Tanto per sottolinearlo una volta di più, il vecchio Kgb non è mai morto, è stato solo modernizzato e riorganizzato nei vari servizi di sicurezza che ne hanno preso il posto. Dell’Fsb, Putin è stato il gran capo prima di diventare premier e poi, nel 2000, presidente. Via via, nel corso degli anni, si è circondato di colleghi provenienti dalle varie intelligence e dalle strutture statali ad esse collegate: sono diventati il fulcro dell’attuale classe dirigente, inutile illudersi che il sistema da essi architettato possa cambiare, anche dinanzi ad una possibile sconfitta militare. Immagino Putin seduto dietro la sua scrivania, nell’ufficio del Cremlino, mentre fissa il piccolo busto di Pietro il Grande, uno dei suoi miti. E l’immagino compiaciuto mentre riflette sul giorno in cui mise piede da presidente nel Cremlino, rimesso a nuovo, stucchi e dorature (in eccesso, ricordo).

Era ancora semisconosciuto, quel 7 maggio del 2000, alla stragrande maggioranza dei russi. Quanta strada aveva fatto da quando, ragazzo povero diventato un bullo per i vicoli di Leningrado, dove era nato, aveva cominciato a farsi rispettare. L’apprendistato al Kgb, la missione nella Germania dell’Est, il ritorno in patria, traumatizzato dalla caduta del Muro di Berlino e dalla caduta della Germania dell’Est. Viveva e operava a Dresda e addebitò a Gorbaciov la crisi politica, sociale e psicologica che il padre della perestroijka non era riuscito a risolvere. In tanti hanno provato a mettersi nella testa di Putin, e credo, in questo esercizio quasi impossibile, di averci provato pure io, nel 2008, scrivendo Putingrad, una giornata del presidente russo mentre attraversa Mosca, la “sua” capitale, e osserva la città dai finestrini della sua jeep Mercedes, ogni palazzo, edificio storico, scuole, chiese, portoni, negozi, alberghi (come l’Ucraina, uno dei sette grattacieli staliniani all’inizio del Kutuzovskij Prospepkt, vicino alla Casa Bianca, la sede del governo…)

Posso ipotizzare che Putin sia convinto, anche oggi che le cose si stanno mettendo male, di risolvere ogni problema, perché è sempre stato uno che lasciava le opzioni aperte fino all’ultimo istante. Si è infatti sempre vantato di disporre di diversi scenari simultanei, e questo lo aveva e lo rende imprevedibile, ha detto Michel Eltchaninoff, autore del saggio Nella testa di Putin (edito in Italia da Edizioni e7o, pagine 160, euro 15), “può bombardare l’Ucraina, attaccarne il nord e il sud, condurre una guerra ibrida scatenata da massicci cyberattacchi”. Lo scopo? Creare una zona d’influenza come quella dell’Unione sovietica, il cui crollo, dichiarò più volte, è stata la più grande tragedia geopolitica della storia. Ma la realtà è più fluida di quel che prevedeva Putin. E meno favorevole. Il suo esercito è in ritirata. I russi che se lo potevano permettere sono scappati, pur di evitare la chiamata alle armi: centinaia di migliaia, mica bruscolini. Si moltiplicano le voci di dissenso all’interno della “verticale del potere”, e pure tra i media più fedeli sfuggono analisi e commenti a dir poco perplessi sulla conduzione della guerra. Gli ultranazionalisti lo contestano platealmente. Il prestigio di zar Vladimir è calato pericolosamente.

Ha perso financo quel fascino erotico di capo onnipotente, di uomo algido, intelligente, calcolatore. Ha smarrito in questi ultimi mesi la sua autorità rettiliana. Ora il mito della sua potenza, abilmente coltivato da una scenografia che comprendeva anche i movimenti del corpo, i toni della voce e la retorica patriottica delle manifestazioni, sembra appannato. Peggio: invecchiato. Come lui, di colpo. Ecco, adesso vedo che Vladimir Vladimirovic solleva lo sguardo verso la parete, al posto dei quadri ottocenteschi che ha di fronte vede la Leningrado del 1989, città simbolica dell’Unione sovietica, l’ex capitale imperiale ritornata in qualche anno un grande porto e la capitale culturale della Russia. Si ritrova nelle vesti di funzionario dell’università, ma resta fedele al suo ruolo di spia del Kgb: “Chi lo è stato una volta lo è per tutta la vita!”, ripete con gli ex commilitoni ogni volta che si ritrovano a commemorare gli anni gloriosi dell’Urss e del servizio segreto più temuto della Terra. Poi, la svolta.

Anatolij Sobtchak, il sindaco, lo vuole nel suo ufficio, lo sceglie come segretario. Putin ha 37 anni. La sua ascesa è folgorante. Diventa il numero due del potente municipio. S’impone come una delle figure chiave della città che ha ripreso il nome di San Pietroburgo, nel 1991. E assume un comportamento docile, fedele, inoffensivo: sta al gioco. Però, nel frattempo, comincia ad allacciare stretti legami coi poteri forti, gli oligarchi da un lato, dall’altro i boss delle mafie che controllano i traffici con l’estero e i rifornimenti alimentari. Sobtchak si candida alle presidenziali, ma presume troppo e fallisce. Gli oligarchi, allora, convincono Putin a trasferirsi a Mosca. Lo introducono, si fa per dire, dalla porta di servizio nell’amministrazione Eltsin. Dietro le quinte del Cremlino, Putin realizza che Eltsin e la sua cricca familiare sono una vergogna nazionale, tanto è incompetente e impresentabile (beve troppa vodka, Boris…). Agli amici Putin confida che la Russia non può e non deve essere comandata da un tale “cretino”. Nel 1996 Putin entra a pieno titolo nella amministrazione Eltsin: solo il 2 per cento dell’opinione pubblica gli è favorevole. I sondaggi lo dicono chiaramente: la Russia è precipitata nel caos per colpa sua, i russi vogliono un presidente leale e forte. Capace di riportare ordine e di garantire più equità economica. Nel giro di tre anni, la scalata di Putin è straordinaria. Diventa responsabile della sicurezza al Cremlino, poi capo dei servizi segreti Fsb, indi primo ministro.

Gli oligarchi pensavano di aver addestrato una marionetta ligia ai loro interessi; scopriranno che è Putin a diventare il burattinaio. Nel 1999, a 47 anni, durante una conferenza stampa sul terrorismo, strappa il microfono dalle mani di Eltsin e dichiara, con tono marziale e piglio feroce: “Cacceremo i terroristi ovunque essi si trovino, e in qualsiasi buco si nascondano, fin dentro i cessi”. Poche parole, pochissimi secondi di ribalta. Ma il giorno dopo il 40 per cento della gente gli affida il gradimento. Il resto è ormai storia: grazie agli oligarchi che ancora sperano nei loro tornaconto e ai media che i miliardari post-sovietici controllano, Putin è eletto trionfalmente. Non hanno capito che Putin disprezza il sistema oligarchico cresciuto con Eltsin, per quanto sia corrotto e losco. Poco dopo l’elezione, convoca una ventina di oligarchi, i quali pensano che voglia festeggiare con loro la nomina a capo del Cremlino. Macché. Lui gli rinfaccia: “Avete rubato la Russia come mai nessuno prima. Se voi pensate di entrare nel mio ufficio e di bloccare la porta con un piede come avete fatto con Eltsin, siete degli uomini morti”. Uno solo sbuffa. È Mikhail Khodorkovskij. Verrà arrestato. E sconterà dieci anni in Siberia, prima di essere esiliato.

Tempi difficili, ma così belli… forse sospira Putin, rimuginando sui suoi primi passi nel Cremlino, la costruzione della “verticale del potere”, la democratura che gli garantisce il pieno controllo del Paese e della società, la progressiva repressione nei confronti di chi lo contesta, la delusione delle sue “aperture” verso gli Stati Uniti, come quando offrì il suo aiuto a Bush per eliminare Bin Laden, e il presidente Usa che fa finta di nulla. Putin ne restò profondamente deluso e ferito. È da allora che si è convinto che l’Occidente vuole umiliare la Russia e che la Nato si è allargata a Est per circondarla e minacciarla. Così, alla conferenza di Monaco di Baviera sulla sicurezza (2007), proclama la fine dell’egemonia statunitense e inneggia al multipolarismo, dicendo soprattutto basta alla Nato (pochi sanno che invece aveva pensato di farne parte, al tempo di Bill Clinton…). Da allora, il padrone del Cremlino confeziona il suo sogno di grandezza, maturato già al tempo del catastrofico Eltsin: “La Russia è stato un grande paese e lo resterà. Questo statuto è scritto nelle qualità inerenti alla sua identità geopolitica, economica, e culturale”, aveva dichiarato il 30 dicembre del 1999, quando ancora era solo primo ministro.

Il giorno dopo Boris Eltsin informava i russi che aveva deciso di dimettersi e trasmesso i poteri a Putin, in attesa delle elezioni presidenziali. Il delfino di Eltsin puntò subito l’obiettivo sul fine ultimo dei suoi desideri (e illusioni?): edificare uno Stato forte e rispettato dentro e fuori i suoi confini. Dentro, sfruttando il desiderio dei russi di stabilità della società, Putin darà priorità al ritorno dell’autorità statale. Fuori, vuole che la Russia sia trattata alla pari con le grandi nazioni del pianeta, perciò condurrà una spregiudicata e iperattiva politica perché la Russia sia riconosciuta come potenza globale. Non importa con quali mezzi, se i mezzi giustificano quel fine: occupando e flettendo i muscoli dell’apparato militare, nonché quelli più subdoli e determinanti dell’arma energetica, con la quale ha impiccato le economie europee (grazie al sotterraneo lavoro della corruzione e foraggiando i movimenti sovranisti euroscettici). La Russia putiniana è così marcata dalla sua geografia – immensa estensione di terre dal Baltico al Pacifico, il paese più vasto del mondo e quello più ricco di risorse naturali, compreso l’oro del futuro, ossia l’acqua dolce – e dalla sua storia. La Russia è erede di un impero secolare e dell’Urss, la seconda egemonia mondiale; dispone di una cultura di straordinaria ricchezza, è un Paese slavo e ortodosso, ma è anche multiconfessionale e multietnico. Insomma, un mondo nel mondo.

Come scrive la storica Anne de Tinguy, autrice del recente saggio Le Géant empetré (Perrin, 2022, pagine 496, euro 26), la Russia putiniana è frutto di un progetto di grandezza portato avanti dal capo dello Stato e dalla visione che ha del mondo esterno, del posto del suo Paese nella vita internazionale e degli atteggiamenti all’estero nei suoi confronti. Più caustico lo scrittore Viktor Erofeev che con il despota del Cremlino condivide il patronimico Vladimirovic, ma ha cinque anni di più (è il celebre autore di La bella di Mosca, il più scabroso romanzo pubblicato sotto Gorbaciov): secondo Erofeev, che ho conosciuto quando ero corrispondente a Mosca e che di tanto in tanto mi passava le sue collaborazioni (in russo, benché sapesse scrivere perfettamente in francese e conoscesse un po’ d’italiano), il presidente russo è uno che nella sua mente pensa di vincere sempre, anzi, crede di essere predestinato a ristabilire l’impero e ripristinare così la grandezza del mondo russo. Combattere per realizzare questo sogno, anzi questa missione, è un dovere. Egli adora la storia, se ne sente protagonista, eroe, vincitore. Manipola, sfida il mondo, si sente erede di un dispotismo aggiornato al tempo del web, ha ridotto “tutti i problemi internazionali ad uno solo”, spiega lo scrittore francese Pascal Bruckner, che azzarda: “Ha già scatenato la terza guerra mondiale”, quel che dice papa Francesco.

Maestro degli inganni e delle finzioni, Putin è sincero quando dice che non tornerà indietro sulle sue decisioni. Qualcuno dice che è un paranoico e che vive in un universo parallelo dove vede complotti ad ogni angolo. Ma chi riduce tutto a queste superficiali considerazioni sbaglia. Putin è uno stratega pragmatico, conosce il percorso che ha imboccato e vuole coerentemente mantenerlo. Il problema è: a quale costo? Quale altro regalo di compleanno si aspetta di ricevere?

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