Gare deserte, bandi ai quali partecipa una sola impresa, aziende che si rifiutano di firmare il contratto per l’assegnazione dei lavori. Sono questi i problemi che stanno incontrando gli enti locali nel realizzare gli investimenti programmati. Problemi che potrebbero essere l’antipasto di quello che avverrà con l’attuazione del Pnrr. La “messa a terra” del piano europeo, infatti, rischia di essere travolta dal caro materiali che già adesso costringe le imprese a disertare gli appalti pubblici finanziati da risorse statali. Secondo l’Associazione nazionale dei costruttori edili, i rincari hanno già fatto lievitare le risorse necessarie a completare le opere previste nel piano di trenta miliardi. L’Ance ha accolto con soddisfazione i 10 miliardi stanziati nel decreto Aiuti di qui al 2026 per aggiornare i prezzari delle nuove gare e pagare le compensazioni per i lavori realizzati quest’anno, ma avverte che il governo dovrebbe esser pronto a intervenire ancora in caso di bisogno. I sindaci riuniti nell’Anci, dal canto loro, chiedono di utilizzare subito fino a 40 miliardi a valere sui fondi del Recovery per aggiornare gli importi dei progetti: “Invece di fare 100 scuole ne facciamo 80 ma almeno le finiamo”, spiega il vicepresidente Matteo Ricci.

Gare deserte nei Comuni da Milano a Bagheria – Una panoramica dei lavori già in corso, che non rientrano nel piano europeo, aiuta a capire le dimensioni del problema. A Bologna, a cui spettano 700 milioni di euro dal Pnrr, negli scorsi mesi alla gara per la riqualificazione del Teatro comunale e a quella per il Teatro Testoni è pervenuta una sola offerta. A Milano, invece, le difficoltà erano iniziate già nel 2021. In una gara da 500 milioni di euro indetta da Aler, l’azienda pubblica di edilizia popolare della Lombardia, su quaranta lotti soltanto nove sono stati aggiudicati, 23 sono andati deserti mentre ai restanti 8 hanno partecipato imprese che, in fase di verifica, non sono risultate idonee. Ma il fenomeno è diffuso in tutta Italia e non riguarda solo i Comuni. I casi sono talmente numerosi che è impossibile fare una lista completa. In Sicilia, al bando da 4 milioni di euro di Rete Ferroviaria Italiana per la realizzazione di una nuova fermata ad Acireale, sulla linea Messina-Catania, non si è presentata nessuna azienda. C’è poi il caso del “Ponte dei Congressi” a Roma, appaltato dal Ministero delle infrastrutture per conto del Comune capitolino. La gara per la costruzione dell’infrastruttura di collegamento tra l’autostrada di Fiumicino e l’Eur, del valore di 50 milioni di euro, è andata deserta a causa “delle variazioni eccezionali dei prezzi” dei materiali che hanno scoraggiato le imprese a partecipare. Per realizzare l’opera, il comune di Roma sta cercando di reperire la maggiore copertura finanziaria e dovrebbe pubblicare il bando con le tariffe aggiornate nelle prossime settimane.

Per quanto riguarda i casi in cui sono i Comuni stessi ad appaltare i lavori, le gare andate deserte sono centinaia. A Lucca, ad esempio, non c’è stata nessuna offerta al bando, chiuso a novembre, da oltre 6 milioni di euro per la demolizione e la ricostruzione con ampliamento del liceo scientifico Vallisneri. Stessa sorte a Ferrara per una gara da 680mila euro per la manutenzione straordinaria di alcune strade, scaduta il 31 marzo. Sempre nella città emiliana, un bando relativo all’adeguamento sismico dell’istituto professionale Ipsia, dal valore di 750mila euro, non ha ricevuto offerte. E poi a Bagheria, in provincia di Palermo, dove nessuna impresa si è presentata al bando per la costruzione di una pensilina fotovoltaica allo stadio comunale (valore 344mila euro) entro il termine del 17 maggio. Va poi sottolineato un aspetto che grava sulle casse dei comuni: la riduzione del ribasso di gara. A Bergamo, lo sconto sulla base d’asta è passato da una media del 20% al 5-10%, mentre a Verona è sceso dal 20-30% al 3-5%.

Il caso di Parma – “Ci sono molti progetti che dobbiamo approvare nei prossimi mesi e poi mettere a gara e che sono già in sofferenza a causa dell’aumento dei prezzi” sottolinea a ilfattoquotidiano.it Michele Alinovi, assessore alle Politiche di pianificazione e sviluppo del territorio e delle opere pubbliche del comune di Parma. “Il nuovo prezzario emanato dalla regione Emilia-Romagna a distanza di sei mesi dal precedente risulta già vecchio, gli aumenti dei prezzi sono quasi quotidiani”. L’amministrazione locale sta cercando risorse per i cantieri aperti e finanziati da fondi statali o comunali. “Rischiamo dei forti rallentamenti e abbiamo molte difficoltà, dovute al Codice degli appalti, a riconoscere gli aumenti dei costi sperimentati dalle imprese”, spiega l’assessore. Anche a Parma, del resto, ci sono state delle gare andate deserte, dal bando per la riqualificazione di una scuola alla ristrutturazione di una biblioteca dal valore di 2,1 milioni di euro. Siccome per concludere il contratto sono serviti alcuni mesi, l’impresa che ha vinto l’appalto si è rifiutata di firmare: a causa dei rincari di alcuni materiali, come legno, vetro e acciaio, rischiava di lavorare in perdita. Il comune ha revocato l’affidamento e rifinanziato il progetto con 400mila euro. “Spesso siamo dovuti uscire con nuovi bandi ai quali, però, nonostante le maggiori risorse stanziate, hanno partecipato solo una o due imprese. Anche perché per trovare i fondi, ribandire la gara e affidare i lavori ci vogliono un paio di mesi: al momento della firma del contratto i finanziamenti aggiuntivi rischiano di essere insufficienti”.

Anci: “Rivedere i bonus e usare parte dei fondi del Pnrr per coprire i rincari” – “Avevamo già un problema strutturale nel Paese legato alla lentezza nel completare le opere”, spiega a iIlfattoquotidiano.it Matteo Ricci, sindaco di Pesaro e vicepresidente dell’Associazione dei comuni italiani (Anci). “A questo negli ultimi mesi si sono aggiunti due problemi: l’inflazione, che ha fatto lievitare in pochi mesi tutti i progetti del 20%, e i bonus edilizi, che sono eccessivi”. Eccessivi, dal punto di vista di Ricci, perché hanno spinto le imprese a lavorare di più con i privati, lasciando scoperti gli appalti pubblici. “Alle gare che stiamo facendo o non si presenta nessuno oppure le aziende partecipano ma poi, quando è ora di firmare i contratti, non firmano. Da un lato sono spaventate dall’aumento dei costi, che azzera i margini di guadagno dai lavori pubblici. Dall’altro, sono fortemente attratte dai bonus, come il 110%, grazie ai quali i margini sono molto alti”.

Una situazione che rischia di incidere sulla realizzazione del Pnrr. E va risolta il prima possibile. In questa direzione vanno le proposte avanzate da Ricci insieme all’Anci e alle diverse associazioni di categoria, tra cui l’Ance, al convegno Ali che si è tenuto a inizio maggio. “La prima è che il Superbonus 110% va ridotto ma non abbandonato”. In questo modo, dovrebbe crescere il numero di imprese che si candidano alle gare pubbliche. “La seconda è quella di usare una parte dei prestiti europei per far fronte ai rincari. Non si tratta di cambiare il Pnrr ma di dire all’Europa: dei 220 miliardi assegnati al nostro Paese, 20, 30, 40 miliardi li usiamo per aggiornare gli importi dei progetti. Invece di fare 100 scuole ne facciamo 80 ma almeno le finiamo”, spiega Ricci. Anche perché i costi del piano europeo sono già cresciuti di 30 miliardi, mentre il decreto Aiuti per quest’anno ne stanzia soltanto 3 (che salgono a 10 considerando anche le cifre messe sul piatto dal 2023 al 2026) per coprire tutti i tipi di investimenti pubblici, compresi quindi anche quelli finanziati con risorse nazionali. “Il rischio” conclude Ricci, “è che se si continua a sottovalutare questo aspetto o non si fa il Pnrr oppure per far fronte all’aumento dei costi il governo sarà costretto a fare uno scostamento di bilancio”.

I costruttori: “Bene il decreto ma potrebbero servire più soldi” – Il presidente di Ance, Gabriele Buia, è invece assai soddisfatto del decreto: “Le nostre richieste sono state ascoltate”, dice a ilfattoquotidiano.it. Il provvedimento obbliga infatti le stazioni appaltanti a inserire in tutti i bandi pubblicati tra il 27 gennaio e il 31 dicembre 2023 una clausola di revisione dei prezzi accompagnata da un meccanismo di compensazione delle variazioni, in aumento o in diminuzione, dei costi dei singoli materiali. Inoltre, viene imposto alle regioni di aggiornare i prezzari entro il 31 luglio, mentre nel frattempo le stazioni appaltanti possono applicare una maggiorazione del 20% rispetto agli indici in vigore l’anno scorso. “Va nella direzione giusta”, commenta Buia. Ma il bicchiere è pieno solo per metà: “Gli aumenti che sono stati riconosciuti in alcuni casi non bastano alla luce degli attuali prezzi di mercato” e ci sono opere già in corso che senza interventi “rischiano di bloccarsi”. Non solo: “È chiaro che se dovesse esserci bisogno di maggiori somme il governo e le autonomie locali dovranno intervenire”.

Il nodo dei tempi e della burocrazia – Ma non c’è solo il tema dei rincari. Il Pnrr, che assegna ai Comuni 50 miliardi di euro, deve essere completato entro il 2026. E quattro anni, per i tempi della burocrazia, potrebbero non bastare. “In Italia per realizzare opere da poche centinaia di migliaia di euro ci vogliono tre o quattro anni, mentre per quelle superiori ai 100 milioni ce ne vogliono fino a sedici”, prosegue Buia. “Con il Pnrr non possiamo arrivare lunghi. Tra la procedura, il bando per la progettazione, tutte le autorizzazioni del caso riconducibili agli enti territoriali, dalle Asl alle soprintendenze, passano anche alcuni anni: il rischio è di non riuscire ad eseguire le opere”. Il tema delle tempistiche allarma anche la Confederazione nazionale dell’artigianato. “I tempi per il Pnrr sono strettissimi e, sebbene il decreto aiuti abbia stanziato delle risorse importanti per far fronte al caro materiali, c’è ancora del lavoro da fare” sottolinea il responsabile di Cna costruzioni, Riccardo Masini. “Gli effetti del provvedimento si vedranno tra qualche mese, quando le regioni aggiorneranno i prezzari e a condizione che il ministero emani un ulteriore decreto per la piena applicazione delle misure”. Insomma, è ancora presto per dire che le difficoltà sono state superate.

Alcune aziende, come quelle che fanno lavori stradali, hanno risentito più di altre dei rincari anche perché non hanno potuto accedere ai ristori varati dallo Stato. Nel decreto compensazioni di marzo, infatti, venivano considerati soltanto una trentina di materiali che davano diritto al ristoro. E molte imprese sono state tagliate fuori. Inoltre c’erano soltanto quindici giorni di tempo per chiedere le compensazioni sulla base degli aumenti registrati rispetto all’ultimo semestre 2021. Il provvedimento di maggio contiene molte più voci “ma comunque poche rispetto a tutti i materiali che si usano nell’edilizia” ,spiega Masini. Per il responsabile di Cna costruzioni, quindi, in questa fase c’è bisogno di “semplicità, chiarezza e organicità”. Invece “siamo a un provvedimento alla settimana o al mese, provvedimenti che poi devono incastrarsi tra loro. Questo complica ulteriormente il quadro”.

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