di Andrea Marchina

Per qualunque forza politica si parteggi, non si possono non riconoscere alcuni fatti oggettivi.

Primo: il Movimento 5 Stelle, guidato da Giuseppe Conte prima nell’alleanza con la Lega e poi con il Partito Democratico, ha portato a termine buona parte del programma presentato alle elezioni del 2018: l’introduzione di un salvagente sociale minimo (Reddito di Cittadinanza), il contrasto al precariato selvaggio (decreto Dignità), il contrasto ai privilegi giudiziari (legge Anticorruzione e blocca-prescrizione), il contrasto ai privilegi politici (riordino dei vitalizi e taglio dei parlamentari), la messa a terra del meccanismo della circolazione dei crediti d’imposta per l’efficientamento e il risparmio energetico (Superbonus), il progetto di contrasto all’evasione tramite incentivi fiscali diretti ai consumatori (Cashback).

Secondo, il partito del “Vaffa” che nasceva dalle piazze come frutto di una sacrosanta ribellione popolare anti-sistema si è cimentato al governo del Paese, facendo i conti con alleanze indigeste ma necessarie, scarsi margini di spesa imposti dal vincolo di bilancio, pressioni istituzionali e mediatiche (interne ed estere); ha affrontato il dramma sanitario e socio-economico della pandemia con misure impopolari ma ragionate, proporzionate e sempre nel solco delle linee guida costituzionali; e ha dato prova, da una parte, di una forte vocazione alla salvaguardia degli interessi dei ceti medio-bassi (reddito di emergenza, blocco dei licenziamenti e ristori alle imprese) e, dall’altra, di resistere alle rivendicazioni di classe dei neo-liberisti confindustriali.

Terzo, il Movimento è l’unica esperienza politica ad aver dato seguito ad alcune prassi rivoluzionarie in termini etici: il taglio e la restituzione degli stipendi dei parlamentari e il vincolo del doppio mandato senza se e senza ma.

Tuttavia, gli impegni non portati a termine sono diversi, vuoi per impedimenti contrattuali a fronte di promesse elettorali troppo superficiali o per mancanza della forza politica necessaria. Ma il vero (tentato) suicidio politico dei grillini sta nella resa incondizionata e strisciante al governo Draghi, rendendosi complici di una serie di azioni e misure completamente in contrasto con le posizioni e le battaglie identitarie del Movimento: dalla legge Cartabia che introduceva il meccanismo dell’improcedibilità a una legge di bilancio che rimodulava la tassazione in favore delle fasce medio-alte, dai martellamenti al Superbonus e al Reddito a una gestione miope e iper-bellicista del conflitto russo-ucraino.

E proprio in virtù di questa debolezza politica, percepita giustamente come un tradimento, ai tanti delusi non può bastare un’uscita dal governo a scoppio ritardato e una campagna elettorale che solo lontanamente richiama i fasti delle origini. Soprattutto, non basta un elenco di progetti buoni e giusti. Non basta, insomma, indicare da che parte stare e a chi si vuole dare i soldi, va detto altrettanto chiaramente da che parte non si vuole stare e dove li si vuole prendere, quei soldi.

È per questo che, allo scadere della campagna elettorale, mi piacerebbe rivolgere quattro domande a colui che si candida a guidare una “rivoluzione gentile”. Perché si invocano scostamenti di bilancio, ma non si criticano apertamente quelle politiche monetarie dell’Ue e della Bce che lo rendono insostenibile? Perché non si discute di una tassazione sui grandi patrimoni e sulle maxi-rendite? Non una tantum, strutturale. Perché non si parla di una battaglia europea per aumentare la tassazione dei colossi digitali e dell’e-commerce? E, soprattutto, perché si ammette il fallimento delle sanzioni contro la Russia, consapevoli delle risorse che stanno sottraendo alla nostra economia, ma al tempo stesso non si sostiene pubblicamente di volerle ridiscutere o rimuovere? Queste sono le scelte di campo che un Movimento intenzionato a recuperare il consenso perduto avrebbe dovuto decidersi a fare. Ma che non ha fatto.

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