Sono le prime ore del mattino del 27 gennaio 1976 e ad Alcamo Marina, una frazione estiva di Alcamo, in provincia di Trapani, la piccola caserma dei carabinieri – in codice militare la chiamano Alkamar – sembra abbandonata. Il vento fa sbattere le porte, l’atmosfera è cupa. I poliziotti che arrivano sul luogo, in seguito ad una segnalazione di colleghi di un’altra zona, passati la sera prima senza trovare anima viva, si spingono all’interno e la scena fa pensare ad un assalto. Il corpo del brigadiere Salvatore Falcetta è incastrato tra la branda e il muro, colpito da un proiettile al petto e uno all’addome; stessa scena nella stanza accanto dove Carmine Apuzzo giace in terra colpito a morte: il sangue è ovunque.

La strage di Alkamar si presenta da subito come un episodio diverso dai tanti di criminalità comune o mafiosa: è la prima volta che accade una cosa del genere dalla fine del secondo conflitto mondiale. E’ vero, quella è una terra con un tasso altissimo di grandi delinquenti e neofascisti, proprio lì, sulla spiaggia di fronte alla caserma, sbarcano continuamente battelli piene di droga e armi. Ma quella drammatica scena fa pensare ad altro. Scatta subito il tentativo di portare le indagini verso gli ambienti rossi: una rivendicazione di un fantomatico gruppo, i Nuclei Sicilia Armata, viene da uomini legati all’assalto perché il telefonista racconta particolari della scena e fa riferimento ad un bottone riprovato in terra: “Non vi servirà ad identificarci“, dice. In poco tempo sembra che giustizia sia fatta, vengono acciuffati i responsabili – quattro giovani – e le indagini muoiono: ma è tutto falso, gli accusati sono stati costretti a confessare cose che non hanno fatto, disgraziati ‘Scarantino’ di quell’epoca. Lo sapremo solo nel 2008, in seguito alle dichiarazioni dell’ex-Brigadiere dell’Arma dei Carabinieri Renato Olino: “Le confessioni sono state estorte con le torture”, disse, come ricorda il saggio Alkamar, edito da Chiarelettere, scritto da uno dei protagonisti liberato dopo oltre vent’anni di prigione, Giuseppe Gullotta (nella foto), insieme a Nicola Biondo.

Da allora non sono stati fatti passi in avanti ma oggi la Commissione antimafia presieduta dal senatore Nicola Morra ha voluto riprendere il filo delle indagini istituendo nel dicembre dello scorso anno un gruppo di lavoro (ne ha fatto parte lo stesso Biondo insieme al colonnello Massimo Giraudo e al generale Paolo Scriccia) che ha avuto a disposizione pochi mesi di attività, ma è arrivato a conclusioni rilevanti. Gran parte del materiale investigativo è stato secretato, ma dalla relazione è possibile ricostruire l’ipotesi cui si è giunti partendo dal presupposto metodologico di una “saturazione informativa”: cioè ripartendo da capo, senza il bisogno di inserirsi in altri filoni di indagine che non ci sono stati. Un’indagine portata avanti ricercando tutte le carte che riguardano l’episodio e le sue vittime negli archivi del Viminale, al Comando Generale dell’Arma dei Carabinieri, al Comando Generale della Guardia di Finanza, l’Ugs (Ufficio Generale Sicurezza dello SME) e l’Aise. Per la sola Arma dei Carabinieri sono state attivate oltre settemila articolazioni su tutto il territorio nazionale. Per la Guardia di Finanza sono stati interessati anche gli archivi degli ex-Centri Informativi Occulti operanti all’epoca in Sicilia.

Un imponente lavoro di scavo che ha riguardato anche i protagonisti di un oscuro episodio avvenuto sempre ad Alcamo nel ’93, cioè il ritrovamento di un arsenale di armi e munizioni nell’abitazione di un Brigadiere dell’Arma, Fabio Bertotto (più volte impegnato in missioni in Somalia), gestito insieme a un altro militare, Vincenzo La Colla, già caposcorta dell’ex ministra ai Beni culturali Vincenza Bono Parrino, all’epoca presidente della Commissione Difesa del Senato. Entrambi furono accusati di essere gli armieri della cosca mafiosa di Alcamo e poi scagionati: La Colla ha patteggiato una pena solo per l’accusa di detenzione illegale di armi.

La natura di quel deposito non è mai stata chiarita, confinata ad una questione di loschi commerci dei due, mentre ora pare che esistano gli elementi per stabilire una possibile correlazione con il duplice omicidio di diciassette anni prima. Anche per la rivalutazione delle dichiarazioni di un poliziotto, Antonio Federico, oramai in congedo, sorprendentemente trascurate per quasi trent’anni. Il deposito di armi aveva l’aspetto di una villetta attorno alla quale erano stati disposti “ordigni nebbiogeni”, dispositivi che avrebbero dato un visibile allarme se l’entrata fosse stata violata: insomma, si presentò subito come un luogo speciale degno della massima attenzione investigativa che non gli venne invece riservata. Si sarebbe poi compreso che il luogo era una sorta di specchietto per le allodole: se veniva scoperto era meglio che si pensasse a un deposito di armi più che ad altri usi. Al tempo una manina sottrasse dal materiale ritrovato esplosivo al plastico. La recente perquisizione del “villino Bertotto” – di proprietà dei genitori del Brigadiere dell’Arma – ha portato al ritrovamento della fotografia di una donna ritenuta compatibile con la descrizione di un identikit emerso nelle indagini sulle stragi del 1993: in quella foto si è riconosciuta Rosa Belotti, una 57enne bergamasca oggi indagata per la bomba di via Palestro a Milano. Anche se questo specifico ritrovamento non ha connessioni con la strage di Alkamar, tuttavia conferma la natura particolare della villetta attorno alla quale la Commissione Antimafia ricostruisce la dinamica dell’assassinio dei due sfortunati carabinieri: è probabile che i due incapparono casualmente in qualcosa che li portò a conoscerne l’esistenza.

Dice l’Antimafia che “quale causa del duplice omicidio è emerso un traffico di materiale fissile verso la Libia, in atto almeno dal 1976 e proseguito perlomeno sino al 1993, in un cui carico ebbero ad incappare casualmente i due militi”. Solo il rischio che non si riuscisse a contenere la segretezza di quelle operazione avrebbe portato alla decisione di uccidere i due malcapitati con la conseguente urgenza di trovare rapidamente qualsiasi colpevole per mettere un tappo alle indagini.

L’Antimafia stabilisce poi, pur senza una “pistola fumante”, una correlazione tra i morti di Alcamo Marina e la villetta Bertotto ritrovata nel ’93, avendo individuato tra “le intercettazioni telefoniche operate a seguito delle dichiarazioni dell’Olino ed operate nei confronti dei soggetti ritenuti coinvolti nelle torture dei soggetti tratti in arresto nel 1976 hanno fatto emergere un evidente, ma inspiegabilmente trascurato, elemento di connessione tra il duplice omicidio di Alcamo Marina ed uno dei militi dell’Arma gestori dell’arsenale scoperto nel 1993″. La correlazione tra i due fatti era stata avanzata anche da un lavoro istruttorio svolto dalla Commissione Antimafia della XVI Legislatura che ipotizzò però una interessante connessione della struttura Gladio che ora viene totalmente rigettata: “In ultimo si ritiene doveroso rappresentare che lungi dal procedere per convinzioni preconcette, il Gruppo di Lavoro ha tentato gli opportuni approfondimenti anche sulla cosiddetta “pista Gladio”, sia con escussioni sia con acquisizioni mirate sui Battaglioni di Sicurezza e sulle Scorte Speciali di Copertura in funzione Stay Behind, non omettendo attività istruttorie anche nei confronti del noto Centro Scorpione, del RAC di Trapani e del Nucleo di Santa Ninfa, senza ottenere alcun elemento a detrimento del filone emergente e consolidatosi durante le attività condotte dalla presente Commissione”.

Se così fosse, resta da comprendere la rete e i beneficiari dei traffici per i quali veniva usata la villetta: un capitolo che potrebbe portare dritti alle attività di destabilizzazione. In ogni caso è certo che tutte le informazioni raccolte dall’Antimafia a guida Morra sono destinate a essere passate al setaccio di ulteriori verifiche investigative. Se ne starebbe occupando anche la Dna: riparte dunque il lavoro investigativo e vedremo fin dove si arriverà. L’importanza e il significato della strage alla caserma resta di grande interesse per comprendere tante cose e all’epoca non era sfuggita alla intelligenza di Peppino Impastato: nelle ore successive al suo delitto, i carabinieri, guidati dal colonnello Antonio Subranni, sequestrarono nell’abitazione della mamma dell’attivista di Democrazia proletaria, Felicia Impastato, una serie di documenti, tra i quali c’era anche – è scritto nei verbali – una cartella su Alcamo Marina. Cartella mai restituita alla famiglia, al contrario degli altri documenti.

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