Cinema

Venezia 79, nel postumo “Call of god” c’è tutto il mondo crudele ed estremo di Kim Ki-duk

Protagonista del film è una ragazza (Zhanel Sergazina) “nella cui mente si affaccia un amore” e sul suo smartphone chiama nientemeno che… Dio

di Davide Turrini

Il mondo crudele ed estremo firmato dal sudcoreano Kim Ki-duk torna, postumo, a Venezia, Fuori Concorso. S’intitola Call of god ed è il 24esimo ed ultimo film diretto dal regista coreano, morto per Covid mentre si trovava in Lettonia nel dicembre del 2020, dopo essere stato emarginato in patria per via di una serie di accuse di molestie e violenza sessuale. A quanto afferma la produzione del film, Kim aveva girato tutte le scene sul set di una grande città del Kyrgizstan e dopo la sua morte, e su indicazioni di montaggio e postproduzione indicate su taccuini e appunti di lavoro, è stato il regista estone Arthur Weber a completare definitivamente Call of god. Protagonista del film è una ragazza (Zhanel Sergazina) “nella cui mente si affaccia un amore” e sul suo smartphone chiama nientemeno che… Dio. Incontrato per strada un ragazzo (Abylai Maratov) che le chiede dove si trova un locale, la ragazza lo accompagna fino alla meta.

Poco prima che i due infine si siedano accettando di chiacchierare durante una bevuta, la ragazza viene scippata e lui si getta a recuperare la borsa ricevendo comunque un pugno in pieno viso dal ladro in fuga. Inizia così una tormentata, sincopata, sadica e cruda storia d’amore e di sesso che rivela un presente (e un passato) da donnaiolo impenitente e violento del ragazzo, come un desiderio masochistico della protagonista. Dopo una sorta di tran tran convenzionale in crescendo per circa 45 minuti di film, la situazione precipiterà con i due che verranno alle mani: lei getterà il cane del ragazzo dal terrazzo, lui la prenderà a mazzate (da golf) in testa. C’è tutto il tormento, e l’estasi, del cinema di Kim, in questa opera minima in bianco e nero che sembra come un saggio scolastico basico sui parametri dell’inquadratura e il senso del ritmo del racconto. Laddove l’amore si coniuga nuovamente con la morte, dove l’anima sfiora e subisce materialmente il senso della colpa, dove il corpo si mette sadomasochisticamente in gioco nella sua integrità fisica (la sequenza delle freccette lanciate verso i palloncini trattenuti tra le cosce di lei e lui è un’allegoria da galleria Kim), Call of god rivela le ultime peculiari crude e dolorose tracce di un cinema che da L’isola a Ferro 3, passando da Pietà e Moebius, ha fatto scuola e storia con un occhio carnale all’eccesso e un tuffo luminoso nell’anima.

Venezia 79, nel postumo “Call of god” c’è tutto il mondo crudele ed estremo di Kim Ki-duk
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