C’era un gioco, quand’ero bambino, che si chiamava Il gioco dell’anno, era di società e per tradizione si tirava fuori il primo giorno di ogni anno nuovo. Nella moltitudine di aneddoti e informazioni di cultura generale che il simpatico passatempo proponeva, una, in particolare, colpì l’immaginazione del me infante restando scolpita nella mia memoria: riguardava il tenore Luciano Pavarotti e un fantomatico concerto in luogo del quale, dando seguito ai miei ricordi fumosi, il pubblico gli avrebbe tributato ben 92 minuti di applausi!

Non riuscivo a capacitarmene, era un’enormità che la mia mente non riusciva a contenere, eppure, sebbene con un minutaggio di poco inferiore, un episodio simile era accaduto davvero: era il 1988, e Pavarotti, dopo aver cantato alla Deutsche Oper di Berlino nel ruolo di Nemorino dall’Elisir d’amore di Gaetano Donizetti, veniva applaudito per 67 minuti di fila, un primato che detenne per qualche anno fino al sopraggiungere degli 80 minuti di applausi tributati nel 1991 dallo Staatsoper di Vienna al tenore Placido Domingo. Ma i record di Luciano Pavarotti, venuto oggi a mancare esattamente 15 anni or sono, non finiscono qui: 378 volte la più grande star del canto lirico si è infatti esibita, avvicendandosi tra una ventina di diversi ruoli, alla Metropolitan Opera House di New York, di fatto il teatro lirico nel quale la leggenda del melodramma ha cantato di più in assoluto. Ben 60 di quelle 378 esibizioni sono occupate dal personaggio di Cavaradossi, dalla Tosca di Giacomo Puccini, ruolo che più di ogni altro Pavarotti ha vestito nel tempio operistico newyorkese e col quale si è reso protagonista di uno dei rarissimi bis richiesti dal pubblico del Met: correva l’anno 1994 e l’allora direttore James Levine, cedendo agli incessanti applausi, decise di contravvenire a una regola non più scritta, come lungo il corso degli anni Venti, Trenta e Quaranta, sulle locandine degli spettacoli (“Positively no encores allowed”), ma comunque tacitamente presente nell’etichetta di uno dei teatri più abbottonati al mondo.

A questi numeri, che non definiscono l’artista ma aiutano a comprenderne grandezza e storica portata, se ne aggiungono di altri, non meno importanti, che il tenore più amato dell’epoca contemporanea ha incasellato nel corso della sua lunga carriera: come quelli dell’album The 3 Tenors in Concert 1994 che, dopo aver già venduto un milione di copie nella sua prima settimana di vita, è divenuto, superandone i 12 milioni, il disco di musica classica più comprato della storia. O ancora come le ingenti somme di denaro che, in collaborazione con le più celebri star della musica pop/rock mondiale, è stato in grado di raccogliere a scopo benefico: ben 8,5 milioni di dollari raccolti con gli U2, e col brano Miss Sarajevo, all’interno del progetto Concert for Bosnia; altri 3,3 milioni di dollari per i rifugiati dall’Afghanistan e 1 milione per quelli del Kosovo.

A decine alla sua morte furono le istituzioni teatrali e concertistiche che in ogni parte del mondo lo vollero commemorare, ma tra queste le parole della Royal Opera House di Londra definiscono forse maggiormente la portata artistica e umana del suo operato: “Era uno di quei rari artisti che hanno influenzato la vita di persone in tutto il mondo, in tutti i ceti sociali. Attraverso le sue innumerevoli trasmissioni, registrazioni e concerti, ha introdotto lo straordinario potere dell’opera a persone che forse non avrebbero mai incontrato l’opera e il canto classico. Così facendo, ha arricchito le loro vite. Quella sarà la sua eredità”. Dovuta, dunque, la stella n. 2730 che, postuma, lo scorso mese la Camera di Commercio di Hollywood ha posizionato sul marciapiede più famoso del mondo, la Hollywood Walk of Fame, un vero e proprio tributo all’onore e alla gloria di uno dei più grandi artisti di tutti i tempi: “L’incredibile celebrità di Luciano – ha commento in luogo della cerimonia il direttore dell’Opera di Los Angeles, James Conlon – si è estesa in tutto il pianeta, andando ben oltre i confini del teatro d’opera. Nel suo percorso per affermarsi a livello internazionale è uscito dagli schemi in modo pionieristico”.

Al di là di tutti i record, dei numeri e delle commemorazioni possibili, sono però le parole di Peter G. Davis, critico del New York Times, che più di ogni altro contributo hanno saputo definire, nel 1968 e all’indomani del suo debutto al Metropolitan di New York nei panni di Rodolfo da La Bohème di Giacomo Puccini, la grandezza artistica del tenore modenese: “Mr. Pavarotti ha trionfato principalmente attraverso la bellezza naturale della sua voce: uno strumento luminoso e aperto con un bel suono metallico che si scalda in una lucentezza uniforme e brunita nella gamma media. Qualsiasi tenore che riesca a sbarazzarsi di Do acuti con tale abbandono, negoziare con successo delicati effetti diminuendo e attaccare frasi pucciniane con tale fervore conquisterà qualsiasi pubblico de La Bohème, e Mr. Pavarotti li ha avuti tutti ai suoi piedi”. Grazie Luciano.

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