A leggere il tweet di qualche giorno fa del teologo Vito Mancuso viene in mente il celebre monito del regius professor dell’università di Oxford, il marchigiano Alberico Gentili: silete theologi in munere alieno. Gentili lo vergò alla fine del XVI secolo, quando si trovò a battibeccare con i teologi su questioni giuridiche. Ora Mancuso scrive: “Io non mi intendo di politica e posso sbagliare. Ma sento che il nostro paese avrebbe tutto da guadagnare da avere Draghi al governo per i prossimi anni e così mi chiedo se questo meccanismo elettorale parlamentare democratico non sia diventato un laccio che strozza la vita reale”.

Avendo suscitato qualche critica, Mancuso è tornato sui suoi passi sostenendo che avrebbe in realtà voluto riferirsi alla differenza tra democrazia e oclocrazia, ovvero il governo delle masse, una forma degenerata di democrazia. Vorrei dire qui che non intendo discutere le convinzioni democratiche di Mancuso. Ciò che mi interessa sono i processi, di cui Mancuso, come tutti noi, è parte, non le opinioni personali di un singolo, al quale non vorrei attribuire più di quanto traspaia da un tweet che magari è solo un infortunio. È che con quell’uscita Mancuso, magari suo malgrado, ha incarnato un paradigma: la diffidenza epistocratica dei sapienti (o dei sedicenti tali) per la massa incolta. Vecchia storia: le masse non sono mai considerate in grado di ragionare, hanno sempre bisogno che qualcuno le rappresenti. Come diceva Marx spregiativamente dei contadini che avevano portato al potere Luigi Bonaparte, essi non possono rappresentarsi, devono essere rappresentati perché sono un sacco di patate, non una classe.

Naturalmente, qui non si vuole sottovalutare il fatto che le masse sono spesso preda del leader carismatico, si fanno guidare dal potere pastorale del demagogo di turno, sono orientate da quelle profezie che si autoavverano che sono i sondaggi. Del resto Bonaparte ebbe successo anche perché aveva pubblicato L’estinzione del pauperismo per sostenere che le masse proletarie dovessero, dato che non avevano niente, diventare proprietarie.

Ma il punto è che non è difficile (anzi) trovare il demagogo nel leader tecno-populista, spinto da un apparato ideologico che tende a rappresentarlo come il salvatore razionale di fronte alle masse incompetenti che rischiano di far danni proprio perché, piuttosto che lasciar fare al leader (investito di un mandato tra pari, tra sapienti e competenti), pretendono di esprimersi democraticamente. Il leader tecno-populista invece è il risultato di una selezione che assomiglia più a un concorso che a un’elezione: per titoli. O almeno questa è la retorica che come un’aura lo circonda, come se il potere potesse essere esercitato solo da chi può vantare curriculum stellari ed esperienze di altissimo livello, garanzie di successo politico assicurato.

Peccato che non sempre sia così. La retorica tecno-populista è efficientista, rappresenta la democrazia come farraginosa perché impedita, a causa dei lacci e lacciuoli di berlusconiana memoria, nel fare le scelte necessarie per il bene del paese. E poco importa se in realtà in democrazia il bene è ciò che i cittadini scelgono che sia (dentro la cornice fissata dalla Costituzione). Del resto i foschi scrittori come Rondolino lo hanno detto, che occorreva in fondo spingere il cittadino all’astensione, mentre i chiari e sereni coprivano il nesso inscindibile tra tecnica e compressione della democrazia.

E qual è, diciamolo, la forza politica che costituisce l’epitome, per questo populismo delle élite, dell’incompetenza e della crassa pancia del paese? Ma naturalmente il M5s, per disinnescare il quale (ché di questo si tratta, non davvero di credere alla favola dei competenti) non c’è migliore argomento che quello secondo cui il governo dei sapienti val bene una sospensione della democrazia parlamentare (e non si tratta necessariamente di essere supporters del M5s, lo si può notare sine ira ac studio). Perché la politica, si dice, non può essere contrastiva: non deve essere conflitto e lotta (prova lessicale è l’accezione negativa di un termine che dovrebbe invece enucleare il cuore della politica: ‘divisivo’), ma conciliazione e neoconsociativismo, soprattutto nell’epoca dell’emergenza diventata norma.

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