Ogni quattro anni, con le estati olimpiche a riempire giornali ed esultanze, spunta qualche atleta che dal semi anonimato passa alla gloria. Questione di minuti: di prestazioni più o meno perfette che valgono le medaglie ai Giochi e l’ingresso nella ristretta categoria degli sportivi che ce l’hanno fatta. Di solito succede nelle discipline minori, definite così a causa dell’insopportabile vizio di pesare l’importanza di uno sport in base al seguito di pubblico. Ma tant’è. Non è questo il punto. Fatto sta che da essere nessuno, diventi un Dio. Per qualche giorno. E approfitti della ribalta mediatica. E ripensi a tutti i sacrifici fatti. E partono i ringraziamenti. Fateci caso: il primo grazie di solito è per “il mio maestro, quello che ha creduto in me e mi ha spinto a continuare nonostante le difficoltà”. Ecco: i primi maestri, quelli che insegnano sport, che crescono uomini e donne per farli diventare campioni. Vogliamo raccontarli così: capire il loro modo di intendere la competizione, scoprire i loro metodi, conoscere i loro aneddoti, sapere da chi hanno imparato. Ci saranno maestri noti e meno noti, espressione di discipline con grande o poco seguito. Unico comune denominatore: loro sono lo sport che insegnano e che hanno contribuito a migliorare. (Pi.Gi.Ci.)

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“Non so se sono stato un grande allenatore, sicuramente sono stato un buon maestro. Dalle giovanili in poi ho sempre insegnato calcio”. Giovanni Galeone, quattro promozioni in Serie A e un’eredità calcistica che continua ancora oggi nelle panchine dei suoi allievi.

Mister, cosa significa insegnare calcio?
“Non dare numeri già nei settori giovanili, ma indicazioni e spiegazioni: ragazzo, vai a destra anziché a sinistra, dritto e non in diagonale, gioca lungo e non corto… Una volta i vivai delle squadre avevano una loro identità e rappresentavano un modello. È saltato tutto quando hanno deciso di non spendere più, preferendo gli stranieri ai giovani. Purtroppo sono venuti a mancare anche dei talent scout geniali come Mino Favini, che ha giocato con me a Monza, e Sergio Vatta. Oggi in prima squadra arrivano difensori che non si adattano a giocare a quattro perché sono abituati a tre. E a quel punto è più difficile imparare”.

Cosa si può fare?
“A Belgrado i settori giovanili erano fantastici. Gli allenatori avevano sopra di loro dei grandi maestri ormai anziani che organizzavano dall’alto”.

Cosa manca al nostro Paese?
“In Italia manca un modo di giocare comune. Un tempo almeno c’era il catenaccio, ora neanche quello. In Spagna esiste la corrida e là prima di colpire il toro fanno duemila cose. In Germania non c’è, anche perché al toro sparerebbero un colpo solo. Quando Guardiola andò al Bayern Monaco, vinse campionati senza avere successo. Oliver Bierhoff, che io presi all’Udinese, mi disse che la Nazionale tedesca ne risentì perché Guardiola aveva modificato le caratteristiche del gioco e la mentalità dei tedeschi”.

Ma la mentalità italiana qual è?
“In Italia potremmo averne una tutta nostra, noi siamo fantasiosi e brillanti. Una volta in Emilia, dove sono gaudenti, facevano un calcio che rispettava le loro caratteristiche. Infatti a Bologna quando si giocava male allo stadio si mettevano a ridere, perché proprio non lo accettavano. A Pescara mi sono immedesimato nella città dove c’è un caos divertente. Li non avrei potuto mettere tutti davanti alla nostra porta a difendere il risultato”.

Roberto Mancini non è riuscito con la Nazionale a creare qualcosa di nuovo?
“Ha tentato, bisogna ammetterlo, ma forse abbiamo sopravvalutato campioni che non lo erano”.

Galeone, è nato a Napoli ma si è trasferito presto con la famiglia a Trieste. Come è stata la sua infanzia?
“Sono cresciuto nel rione di Servola, dove sono nati anche Cesare Maldini e Giorgio Ferrini. Quelli di città non li facevamo neanche giocare da quanto eravamo bravi noi, ma poi dalla Jugoslavia arrivarono i profughi. Porca vacca se giocavano! Sapevano fare tutto, bastava dargli una palla. A basket erano meglio di noi. Io poi ho giocato alla Ponziana, quarta serie. Come allenatori ho avuto due maestri veri, due sc-iavi come li chiamavamo noi. Marino Covacich e Rodolfo Jachsettich. Nati negli anni 20 erano stati anche calciatori. Insegnavano a giocare a calcio. Il pallone ce l’avevano nel sangue così come l’insegnamento”.

Altri maestri?
“Gipo Viani, uno molto esigente. Un rompiballe che curava la parte tecnica ma non disdegnava il concetto tattico. Ero il suo pupillo. Un altro molto bravo era Comuzzi dell’Udinese. A Udine tradizionalmente si insegnava calcio, infatti si vinceva il campionato Primavera e parecchi giovani finivano in A”.

A Udine lei ha messo residenza.
“Vivo a Udine, ma fa troppo freddo per me, quindi sto molto a Pescara e poi l’estate la passo in Sardegna. A Udine si è perso un po’ l’abitudine di incontrarsi con gli altri allenatori: Ferrari, Giacomini, Reja e Capello. Edy adesso allena la Nazionale albanese, è diventato troppo famoso, non so se mi risponde ancora al telefono. Ha fatto una gran bella carriera, Reja. Lui ha iniziato come mio secondo. Quando ci invitavano a parlare ai colleghi più giovani, mi rimproverava di esporre troppo le mie idee. Tienitele per te, mi consigliava. Perché quella è sempre stata l’abitudine degli allenatori. Anche gli stranieri come Boskov, Liedholm e Pesaola erano così. Stessa cosa Menotti. Il brasiliano Coutinho era una che chiacchierava di più. Una volta non si voleva svelare i propri trucchetti tattici. Io penso invece che parlare serva. Quando andavo a Coverciano spiegavo le mie soluzioni offensive, dove rubare palla, quale tipo di pressing fare e dove farlo…”.

E di allievi ne ha avuti?
“Qualcuno penso di sì. Gasperini è stato solo un mio giocatore, Allegri invece è stato con me sette anni e ha iniziato come mio vice. Oltre a Reja ho avuto come secondo Emiliano Mondonico alla Cremonese, prima era stato un mio giocatore. Grandissimo calciatore e grande allenatore, ci divertivamo. Quando mi allenava i portieri metteva la palla sempre all’incrocio perché aveva due piedi fantastici e allora gli dicevo: guarda che li devi allenare i portieri… tatticamente era molto bravo, capiva le partite. Era profondamente torinista, con quella determinazione che contraddistingue da sempre i granata”.

Altri nomi?
“Un altro bravo era Ubaldo Righetti, anche se poi non ha fatto l’allenatore. Ne ho avuti altri: da Giampaolo a Bergodi passando per Camplone, in cui ho visto quando era al Perugia delle impostazioni tattiche simili a quelle che usavo io”.

Torniamo ad Allegri.
“Allegri leggeva le partite anche da giocatore. Si avvicinava alla panca: possiamo colpire lì e lì, mi diceva. Alla tv mi accorgo di avere spesso le sue stesse idee anche nei cambi. A volte non sono d’accordo e glielo dico ma non lo sgrido”.

Andrà mai a lavorare all’estero?
“Max è pigro e non credo andrà all’estero, sta bene a Livorno”.

Assomiglia al Galeone uomo?
“Non è così gaudente, è tranquillo, sereno. Legato alla sua città, ai suoi amici. A Max piace essere livornese. I presidenti pensavano facesse la vita. Aveva certamente molte ragazze, tante gli giravano attorno ma mai è andato a ballare, non fuma e non beve due bicchieri fila”.

Gaudenti alla Galeone ne ha avuti?
“Baka Sliskovic no. Fumava e beveva solo caffè. Era un genio. Marco Negri forse: fuori dal campo era un folletto niente male, pieno di verve. Anche ad Andrea Carnevale piaceva vivere. Vincent Candela, persona fantastica, campione del mondo in tutto! Tutti questi erano professionisti, a me piaceva lavorare con gente così. Persone vere, dateli a me questi, che li alleno io”.

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