Dipesh Chakrabarty cresce a Calcutta tra anni Cinquanta e Sessanta, si diploma in fisica, ottiene un master in formazione manageriale e poi un dottorato in storia a Canberra, in Australia. Le sue prime riflessioni sul rapporto tra spazi aperti, megalopoli, natura e uomo risalgono ad allora. Chakrabarty è principalmente noto al pubblico per un libro, Provincializzare l’Europa (ultima edizione tradotta per Meltemi, 2016 e prima pubblicazione in lingua originale per Princeton University press, 2000), che è una lettura storica della globalizzazione. Sottolinea l’importanza di “decolonizzare” il punto di vista: di guardare, quindi, ai tanti diversi percorsi storici delle diverse realtà geopolitiche, senza appiattire tutto sull’unica visione e direzione dettata dal primo mondo bianco e nordoccidentale e dal modo di produzione capitalistico. L’autore, nella sua vasta produzione, è tornato molto anche sul tema rapporto uomo-natura o, meglio, sul rapporto storia umana-storia naturale. I suoi due saggi più importanti sono stati The climate of history: four thesis, in Critical Inquiry, volume 35, 2009 e Climate and capital: on conjoined histories, in Critical Inquiry, volume 41, 2014. Matteo De Giuli e Nicolò Porcelluzzi – entrambi editor de Il Tascabile e contributor su diverse riviste online e cartacee, insieme curano la newsletter Medusa, su cambiamenti climatici e culturali, da cui è stato pubblicato per NOT Nero editions nel 2021 il libro, Medusa. Storie dalla fine del mondo (per come lo conosciamo) – hanno recentemente curato un’edizione per la collana saggi di Nottetempo (2021), titolata Clima, storia e capitale, preceduta da una lunga introduzione che argomenta la scelta e la presentazione insieme di questi due saggi, qui tradotti con i titoli: Il clima della storia: quattro tesi e Clima e capitale: storie congiunte. Questi due saggi rappresentano passaggi fondamentali per cercare di avere un pensiero critico anche rispetto all’attuale crisi climatica, alle sue responsabilità storiche e ai relativi margini di manovra che abbiamo.

Negli articoli si parla prima di tutto di Antropocene, termine che ormai ricorre molto nel discorso comune, che indica l’epoca geologica attuale, in cui l’ambiente terrestre, nell’insieme delle sue caratteristiche fisiche, chimiche e biologiche, viene fortemente condizionato su scala sia locale sia globale dagli effetti dell’azione umana. Secondo Chakrabarty, i cambiamenti climatici indotti dalle attività umane mettono in crisi le nostre coordinate di comprensione storica. Che significa? Sostanzialmente che questo passaggio ha fatto franare la radicatissima distinzione tra storia umana e storia naturale. A lungo, infatti, le “due storie” erano state interpretate come separate: una prima, quella umana, più veloce, interpretabile, agibile; una seconda, quella naturale, con tempi così lunghi e a sé stanti che si pensava che non avremmo potuto vedere le connessioni, i modi e fino a che punto l’una e l’altra, si possano influenzare reciprocamente. Il nostro tempo, il tempo dell’Antropocene, ha confutato con evidenza questa idea.

Le cose però non vanno semplificate: altri autori hanno proposto un’altra etichetta, quella di Capitalocene, inputando la responsabilità di queste transizioni al sistema capitalistico. Chakrabarty non nega, anzi sottolinea le enormi responsabilità del capitalismo, che ha agito e agisce ancora un ruolo principale nel determinare la crisi climatica e il suo diverso impatto sociale e geografico. Il cambiamento climatico solleva, infatti, ampie e variegate questioni di giustizia, legate al funzionamento dell’attuale sistema economico: “Diverso impatto generazionale, tra piccole nazioni insulari e paesi inquinanti, tra nazioni sviluppate e industrializzate (storicamente responsabili di gran parte delle emissioni) e quelle di recente industrializzazione”. Le popolazioni che soffriranno maggiormente in futuro (quindi più in generale le giovani generazioni di oggi), saranno quelle più povere, nei paesi in via di sviluppo. Si tratta chiaramente di una questione di classe e di “razza”. Non a caso, il periodo della “Grande accelerazione” della crisi climatica tra 1945 e 2015, quando sono cresciuti in modo esponenziale i numeri globali della popolazione, del Pil reale, degli investimenti diretti all’estero, dell’uso dell’acqua, del consumo dei fertilizzanti, della popolazione urbana, del trasporto su ruota, dei telefoni, del turismo internazionale, ha coinciso con il periodo della grande decolonizzazione.

Tuttavia, Chakrabarty sottolinea anche un’altra cosa: è importante capire che l’impatto della specie umana sul pianeta ha radici lunghe e profonde che precedono e andranno oltre la tenuta del capitalismo, per quanto quest’ultimo resti un elemento da contrastare anche rispetto alla questione della crisi climatica. Questa crisi, contemporaneamente, ci obbliga a pensare anche oltre, su più scale temporali, cercando di analizzare sia l’impatto immediato umano, sia la storia profonda della Terra, che ha un ruolo di co-attrice e va tenuto in conto anche per immaginare un futuro sostenibile, nei limiti della possibilità umana. Storia umana e storia naturale, dunque, non sono separabili. Contemporaneamente non è la storia umana che, esclusivamente, incide su quella naturale. L’influenza è reciproca e, per quanto dall’umano e dal politico si debba partire, un pensiero di lungo, lunghissimo periodo non va abbandonato. Il tutto nei limiti del possibile, di quanto possiamo immaginare, cercando di prevenire oltre che curare.

Ad esempio: i paleoclimatologi sanno che nel passato la Terra ha subito diversi momenti di riscaldamento che hanno determinato punti di non ritorno, che non sono prevedibili, che vanno oltre la capacità di analisi umana. Noi, da un lato sappiamo che oggi le emissioni legate al carbone inficiano fortemente sul clima; dall’altro sappiamo che non possiamo sapere quando arriveremo al punto di non ritorno. Sulla base di ciò il punto per chi elabora le policies non può ancorarsi su un’analisi costi-benefici solo legata al punto di vista umano: non possiamo conoscere la reale tenuta del pianeta; quindi, serve un principio precauzionale e se vogliamo risolvere il problema climatico, almeno in parte, dobbiamo eliminare le emissioni legate al carbonio, gradualmente, ma il prima possibile. Non solo la storia umana detta le regole, ma anche quella naturale, in un equilibrio continuo, che senz’altro non può stare agli interessi del capitale.

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