Ha veramente dell’incredibile la storia della “promozione” della mediazione familiare in Italia: almeno quattro associazioni nazionali, un sottobosco sterminato di associazioni locali, oltre diecimila operatori formati, una federazione, una fondazione di prossima costituzione e 35 anni di impegno per concludere poco o niente. E non farebbe nessuna differenza se la parola “promozione” fosse scevra di ironia. Tanto più che il concetto stesso di promozione, vera o fasulla che sia, stride violentemente con la mancata istituzione di un ordine e di un albo dei mediatori familiari nella prima e irripetibile occasione di riforma del processo civile (cosiddetta riforma Cartabia).

Rapida cronistoria. Nel 1987 nasce l’Associazione GeA – Genitori Ancora, prima associazione di categoria del nostro Paese. Poi a ruota tutte le altre: nel 1995 l’Associazione Internazionale Mediatori Sistemici (Aims) e la Società Italiana di Mediatori Familiari (Simef) e nel 1999 l’Associazione Italiana Mediatori Familiari (Aimef), solo per citare quelle più rappresentative al livello nazionale. Seguono l’Aemef nel 2003, l’Enamef nel 2005, l’Inamef nel 2013 e chi più ne ha più ne metta. Praticamente impossibile censire il numero di associazioni locali costituitesi nel mentre. Nel 2016 e nel 2020 un paio di iniziative un po’ fuori tempo (per non dire anacronistiche): la costituzione della Federazione Italiana delle Associazioni di Mediatori familiari (Fiamef) e quella del comitato dei promotori della fondazione per la promozione e la diffusione della cultura della mediazione.

Insomma uno schieramento di forze imponente che, facendo fronte compatto, avrebbe potuto ottenere i risultati che la mediazione familiare merita: un’affermazione culturale, un riconoscimento professionale oppure entrambi. Invece no. In Italia cerchi convergenza e omogeneità e trovi divergenza ed eterogeneità, anche importanti per certi versi, ma nell’insieme particolari. È la rincorsa spasmodica a ruoli di leadership che sono causa di uno sbriciolamento degli interessi che nega l’idea stessa di cura dell’interesse collettivo. Ci si concentra, per tornaconto economico e/o per convenienza politica, su singole istanze, intuite o perfino inventate, costruendone i bisogni sottostanti. Uno slogan e via, procedendo di interesse in interesse in una zuffa poco decorosa tra alleati sulla carta, ma nemici nella realtà. Così si frantuma la coesione di categoria, che al contrario è proprio ciò che servirebbe.

Mi sono spesso interrogato sui motivi che impediscono al comparto di incidere a livello normativo e, al di là di quelli già citati, ne ho rinvenuto uno determinante e forse sottovalutato nelle parole dello stesso Fulvio Scaparro: “Nel 1987, fondando l’Associazione GeA – Genitori Ancora, abbiamo incominciato a lavorare su un progetto carico di utopia: affrontare i conflitti, in particolare i conflitti familiari, non solo come eventi distruttivi, ma anche come occasioni di crescita e di trasformazione delle relazioni; aiutare i genitori in separazione a ritrovare fiducia, speranza, capacità di comprensione e riconoscimento reciproco; diffondere una cultura della mediazione da cui possano derivare risultati di grande utilità non solo per i singoli, ma anche per l’intera collettività in termini di pacificazione delle relazioni sociali e di fiducia nelle risorse personali e comunitarie”.

La Oxford Languages definisce l’utopia come “l’oggetto di un’aspirazione ideale non suscettibile di realizzazione pratica”. La scelta della parola dice tutto.

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