Ci sono almeno quattro considerazioni da fare dopo il voto del Parlamento europeo che ha respinto con 328 voti contro 278 e 66 astensioni l’obiezione alla proposta della Commissione che include anche gas e nucleare nella classificazione europea delle attività utili ad una Ue a emissioni zero nel 2050, la cosiddetta tassonomia europea.

La prima è che la manovra di Macron finalizzata a usare soldi pubblici e reintrodurre il nucleare con una bella etichetta verde è riuscita, combinata con le concessioni temporanee alla Germania per uscire dal carbone anche investendo sul gas. Infatti le condizioni perché gas e nucleare siano ammissibili tra le attività verdi sono perfettamente tagliate sulle loro esigenze, pur se la Germania poi ha dichiarato che si sarebbe pronunciata contro la tassonomia con gas e nucleare in Consiglio. Quindi niente o quasi per Italia e altri paesi. Non si potranno finanziare né rigassificatori né altre fantasie italiche pro gas ed etichettarle come verdi, ma, come spiega la Fondazione Ecco, c’è il rischio che “fondi privati siano fagocitati da grandi gruppi industriali sul piano nucleare di Macron” o per il parziale passaggio dal gas per l’accelerazione dell’uscita dal carbone della Germania.

A riprova della natura affatto scientifica e tutta politica della misura concessa da Ursula Von Der Leyen poco prima della mezzanotte del 31 dicembre 2021 e che era destinata ad aiutare anche la campagna elettorale di Macron, c’è anche la coincidenza dell’annuncio di ieri della prima ministra francese della decisione di rinazionalizzare Edf. Quindi se la tassonomia è soprattutto pensata per orientare gli investimenti privati, è evidente che è destinata a dare legittimità anche a quelli pubblici.

In secondo luogo, il voto di ieri, al di là del suo impatto reale, fa il gioco dei settori economici e industriali interessati a rallentare la transizione e a confondere le acque il più possibile: è importante precisare che la tassonomia europea non vieta nulla, semplicemente dà una etichetta a ciò che serve alla neutralità climatica secondo alcuni criteri. Ma nella semplificazione della comunicazione mediatica, si dice semplicemente che gas e nucleare come tali sono verdi e questo fa perfettamente il gioco delle varie lobby fossili e nucleariste molto attive ovunque e sempre alla ricerca di fondi privati e pubblici.

Lo si vede chiaramente in Italia, dove il dibattito sul nucleare è improvvisamente risorto e quello sul gas è molto orientato a favore di un suo ruolo centrale nei prossimi decenni; le stupefacenti dichiarazioni di Tajani secondo il quale il futuro dell’energia in Europa è l’atomo, ma nei prossimi 20-30 anni nell’attesa del nuovo nucleare bisogna investire in gas, dimostrano una completa in-coscienza rispetto al drammatico avanzare dei cambiamenti climatici, all’urgenza e anche alla convenienza economica e sociale di mettere in piedi politiche e misure concrete per mitigarne l’impatto e adattarsi alle sue conseguenze. E queste passano per massicci investimenti nel risparmio energetico e nell’installazione di rinnovabili secondo una pianificazione razionale e mettendo in piedi una adeguata capacità di costruire consenso e destinare risorse per misure di accompagnamento ambientale e sociale. E attraverso una politica industriale capace di guardare al futuro e non dipendente come oggi dagli interessi economici contingenti di gruppi di potere economico legati a industrie del passato.

La terza considerazione è che questa decisione non è una tragedia che uccide il Green Deal, ma dobbiamo raddoppiare gli sforzi e la mobilitazione perché il suo cammino prosegua nel modo più ambizioso possibile. Tutti i dossier legislativi del Green Deal sono aperti, dalle rinnovabili all’efficienza allo scambio di emissioni, le condizioni poste nella tassonomia hanno precisi limiti e sono (in teoria) temporanee; e Austria e Lussemburgo insieme a innumerevoli Ong ed esperti stanno già lavorando per presentare un ricorso alla Corte di Giustizia per denunciare la contraddizione fra la legge originaria e il decreto attuativo.

Certo, si tratta di un colpo duro alla credibilità della Commissione e quindi della Ue sul Green Deal e alla sua aspirazione di leadership climatica anche rispetto all’opinione pubblica: questa tassonomia non è più in grado di costituire un modello a livello globale ed è dubbio che verrà largamente usata come benchmark internazionale; le attuali regole europee sui green bonds non includono gas e nucleare e altre tassonomie esistenti le escludono; numerosissime banche hanno già detto che non prenderanno in considerazione questi criteri per i loro investimenti verdi e quindi questo esercizio di classificazione che ha coinvolto centinaia di esperti e scienziati e un lungo lavoro rischia di diventare in parte inutile a causa di una decisione politica dell’ultimo momento; è veramente un grave errore da parte della Commissione anche rispetto alla dimostrazione di scarsa autonomia dalle pressioni dei governi su quello che rimane il suo più importante cantiere, il Green deal, ancora più grave nel mezzo di una guerra che ha dimostrato chiaramente le conseguenze politiche e geopolitiche della dipendenza da regimi autoritari per scelte fondamentali come quelle energetiche.

Ma sarebbe un errore pensare che i giochi sono fatti; il grande lavoro fatto da una parte importante della politica e della società civile e scientifica intorno a questo voto è un patrimonio da non disperdere perché la battaglia per una Ue davvero “climate-proof” è ancora molto lunga. E include anche un rinnovato impegno a favore di una riforma democratica della Ue come indicato dalla Conferenza sul Futuro dell’Europa, in particolare eliminando il potere di veto e lo strapotere degli Stati sulle decisioni europee.

La quarta considerazione è che politicamente il Partito Popolare ha scelto nella sua larga maggioranza di allearsi con la destra estrema eco-scettica da sempre, rompendo la cosiddetta maggioranza Ursula sul tema centrale di questa legislatura e cioè la lotta ai cambiamenti climatici attraverso una decisa modifica del sistema energetico rilanciando allo stesso tempo l’economia e il lavoro. In Italia questa divisione è plateale. Mentre i deputati del Pd, dei Verdi e i 5Stelle hanno compattamente seguito la linea di tornare alla versione originale della tassonomia europea, e di respingere un greenwashing dannoso, tutti i partiti della destra hanno votato a favore. Penso che questo sarà un tema centrale nella prossima campagna elettorale, che deve essere definito con grandissima cura e determinazione; perché in Italia, è inutile illudersi, l’opinione pubblica è sostanzialmente malinformata e piuttosto eco-indifferente; le campagne elettorali non si sono mai volute giocare sul tema delle grandi e positive trasformazioni possibili e necessarie attraverso la transizione ecologica e il governo Draghi, a partire dal suo Presidente, non ha una visione né chiara né avanzata su questo tema, tranne pochissime eccezioni.

Questa realtà impone agli ecologisti oggi dispersi in politica, nella società civile e nell’economia di unirsi al più presto e lavorare per una forte e convincente anima – e cuore – verde (e non solo la buccia di un frutto colorato) in una futura alleanza di un governo progressista ed europeista.

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