di Paolo Lorenzo Giglio

Gli aiuti vanno ai poveri dei Paesi del Sahel? No, gli aiuti vanno in gran parte ai ricchi, come in Europa. Le agevolazioni della Politica Agricola Comune (Pac), con 386 miliardi di euro in 7 anni (33% del budget dell’Unione Europea), sono destinate per l’80% al 20% delle imprese agricole più importanti. Eurostat indica nel 2015 che sulle 22,3 milioni di microimprese dell’economia europea (settore finanziario escluso) il 92,7% sono imprese con meno di 10 addetti che rappresentano quasi il 30% dei posti lavoro dell’Unione, e ricevono pochissime agevolazioni. Lo stesso capita con i progetti di aiuto ai paesi poveri. La stragrande maggioranza dei donatori ha creato delle procedure talmente complicate che i “piccoli” non possono adeguarsi. Sono quindi i grandi, che vincono le commesse e fanno le realizzazioni come intermediari, a carpire gran parte della torta.

Bisognerebbe tornare alla distanza zero o quasi, in modo che l’intermediazione fra il donatore e il beneficiario finale sia la meno importante e possibile, favorendo i progetti eseguiti attraverso delle strutture locali no profit presenti nella zona d’azione che possono tessere dei legami duraturi nel tempo con i beneficiari finali. La maggior parte dei donatori ha intriso nel proprio approccio una burocrazia tale che lo scavatore di pozzi del villaggio non ha nessuna possibilità di ottenere la commessa per fare un pozzo, che permetterebbe di dare lavoro al villaggio e arricchire un pochino la località. Si parla di trasparenza perché sono stati introdotti degli appalti anche per i piccoli contratti, come se gli appalti potessero evitare le “indelicatezze”. Per niente, non le evitano per niente! Queste pesanti procedure proteggono dei tecnocrati incompetenti che si giustificano in questo modo, tecnocrati che sanno accumulare delle domande di giustificativi, ma non saprebbero controllare se il pozzo è a modo. Questo “protegge” anche molti cooperanti che non vogliono più lavorare sul terreno con delle esecuzioni in regia dove bisogna sudare sotto il sole per seguire il lavoro quotidianamente.

Questi stessi cooperanti si adattano ben troppo facilmente alle regole burocratiche, che permettono loro di restare confinati in uffici climatizzati. Il Paese ha bisogno di una riforma agraria e non di parole e di carte. Il Paese ha bisogno di orticoltura e di trasformazione/valorizzazione della produzione e non di burocrazia, procedure e quadri di concertazione! L’Ufficio Internazionale del Lavoro (International Labour Office – ILO) indica che più del 90% dell’economia africana è informale. L’Istituto Nazionale della Statistica del Niger (INS), valutava nel 2018 il Pil del Niger in 3628 miliardi di cfa (circa 5,5 miliardi di euro) di cui 3429 miliardi (circa 5,2 miliardi di euro) prodotto dal settore informale, cioè il 94,5%. Per spingere le microimprese a formalizzarsi bisognerebbe incitarle e non reprimerle. Escluderle non significa spingerle a mettersi in regola, è proprio il contrario. Non includere l’economia informale nei progetti di sviluppo significa anche partecipare alla distruzione degli equilibri sociali del villaggio, cioè di coloro che si vorrebbe aiutare.

Infine gli uffici di controllo esigono, nel rispetto delle procedure imposte, un numero di documenti cartacei talmente importante che i progetti di sviluppo ormai devono assumere più amministratori che tecnici. Il risultato finale sono una documentazione in regola ma meno pozzi e meno fondi per i beneficiari, mentre negli obiettivi del progetto di sviluppo c’era scritto “dare lavoro alle classi disagiate”, “aiutare gli ultimi”, “diminuire l’emigrazione”. Il sistema dunque è ingannatore. Non stupitevi perciò quando gli abitanti dei villaggi, gli ultimi, quelli che non ce la fanno più, scappano verso l’Europa o sostengono silenziosamente dei movimenti estremisti. Delle soluzioni? Ne propongo alcune in questo libro.

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