di Stefania Rotondo

Sette anni, diciotto giorni, ventiquattro ore. Questo segna mentre inizio a scrivere il Climate Clock, l’orologio climatico che scandisce il countdown fino al 1° gennaio 2028, giorno indicato dagli esperti come ‘momento di non ritornò per la Terra, prima che essa raggiunga un innalzamento delle temperature di 1,5° C (la temperatura massima da evitare per non condannare il pianeta alla sua estinzione) se le emissioni di CO2 dovessero continuare a rimanere tali.

Il Secondo Gruppo di lavoro del sesto rapporto di valutazione dell’IPCC dell’Onu (Intergovernmental Panel on Climate Change), pubblicato quattro giorni dopo l’invasione dell’Ucraina, riguarda la perdita di biodiversità, le migrazioni, i rischi per le attività urbane e rurali, la salute, la sicurezza alimentare, le risorse idriche e l’energia del pianeta. Il rapporto rileva che gli impatti climatici rispetto alle stime precedenti si stanno inasprendo e riguardano tutte le parti del mondo. Se le emissioni continueranno con la tendenza attuale, l’Africa perderà un terzo dei terreni coltivati a mais e la metà di quelli a legumi. Un miliardo di persone rischierà di essere sommersa dalle inondazioni a causa dell’innalzamento del livello del mare, mentre a causa di anomale ondate di caldo si rischiano l’estinzione di massa di vegetazioni e coralli, e lo scioglimento dei ghiacciai.

La Cina è il Paese che pagherà il costo finanziario più elevato se le temperature dovessero continuare a crescere. Insicurezza alimentare, scarsità di acqua, inondazioni e temperature di bulbo umido (superiore a quelle che i mammiferi possono tollerare per più di sei ore), mineranno la crescita economica della più grande potenza commerciale e geopolitica del pianeta. In Australia, America, Europa, regioni polari e montane, alcuni sistemi naturali saranno soggetti a limiti di adattamento ‘hard’ e le limitate risorse di acqua dolce porranno potenziali limiti per gli stati insulari e per le regioni dipendenti dai ghiacciai e dallo scioglimento delle nevi.

Il Mediterraneo è considerato un vero e proprio hotspot del cambiamento climatico. Si è riscaldato e continuerà a farlo più della media mondiale. Le ondate di calore e la scarsità idrica produrrà rilevanti perdite di produzione agricola nella parte meridionale del continente che non potranno essere compensate da quelle attese nell’Europa settentrionale.

A settembre del 2021 alla tavola rotonda sul clima in occasione della 76esima Assemblea Generale dell’Onu, Mario Draghi disse tre cose sulla transizione energetica: fare subito, rapidamente e su larga scala. Ma l’invasione dell’Ucraina ha cambiato le carte in tavola, ponendo la transizione davanti a un bivio. Il nodo geopolitico ed economico di questa guerra è l’energia. L’Occidente non solo ha fatto poco per l’auspicata transizione ma è reo della dipendenza dai combustibili fossili russi. Un suicidio non solo per se stesso ma per il pianeta intero. Perché a questo punto, in vista della completa indipendenza dai fossili russi fissata per il 2030, la ‘nuova carbonizzazione’ dell’economia globale e l’aumento della produzione di gas e petrolio richiesto al Medio Oriente e all’America meridionale per l’Occidente, rischiano di diventare un danno collaterale della guerra.

Ciò che vale per l’energia vale anche per il cibo e minerali. Ucraina e Russia rappresentano il 12% del commercio mondiale e la crisi sulle forniture alimentari si fa già sentire. Il grano bloccato nel Mar Nero può determinare la più grande crisi globale di cibo, con una relativa migrazione verso il Vecchio Continente mai vista fino a ora.

Le conseguenze della guerra e dei cambiamenti climatici sono la duplicazione della stessa realtà. C’è da chiedersi cosa se ne farebbero Usa, Cina e Russia delle conquiste di una guerra se la Terra torturata ci presentasse il conto. Siamo davvero arrivati a un bivio. Nel frattempo, mentre finisco di scrivere, il Climate Clock segna sette anni, diciotto giorni, ventitrè ore… Tic Tac …

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