“L’obiettivo nell’immediato dovrebbe essere quello di impedire al nemico di estrarre gas dal giacimento di Karish. La Resistenza ha le capacità per impedire al nemico di estrarlo, non dirò come ma non resteremo a guardare mentre Israele saccheggia le risorse naturali del Libano che sono l’unica speranza di salvezza per il popolo libanese”. Con queste parole, trasmesse in diretta televisiva, Hassan Nasrallah – segretario generale di Hezbollah – è piombato sul tema che tiene banco in questi giorni in Libano, cioè la disputa tra il Paese dei Cedri e il vicino israeliano sul controllo di una porzione dei giacimenti di gas marittimi al largo delle loro coste. Già alcuni giorni fa il suo vice, Naim Qassem, aveva ribadito alla Reuters come il movimento sciita fosse pronto a prendere “contromisure rispetto alle azioni israeliane, incluso l’uso della forza“.

Domenica scorsa, infatti, una nave greco-britannica di stoccaggio del gas – la Energean Plc – è attraccata per conto di Tel Aviv al giacimento di Karish che gli israeliani considerano all’interno della loro zona economica esclusiva, mentre il Libano in acque contese. Nasrallah si è rivolto anche alla stessa Energean, intimando di “ritirare immediatamente la nave ed evitare di farsi coinvolgere in questa aggressione e provocazione al Libano”, o in alternativa “assumersi la piena responsabilità per le conseguenze perché nessuna delle misure del nemico potrà proteggere la nave o il giacimento”. Qualche giorno fa le autorità israeliane avevano ribadito come il giacimento di Karish fosse “un asset strategico dello Stato ebraico” che è “preparato a difenderlo”.

All’indomani dell’attracco dell’Energean, le autorità libanesi si erano affrettate a sollecitare l’inviato americano sugli affari energetici Amos Hochstein a rilanciare i negoziati israelo-libanesi sul confine marittimo, iniziati per la prima volta nel 2000 e interrotti per l’ennesima nel 2020. Beirut rivendica un’area marittima di circa 1.430 chilometri quadrati, che comprendono il giacimento di Karish, a circa 50 chilometri dalle coste di Haifa.

La disputa, ormai ventennale, ha un alto valore strategico ed economico. Le riserve libanesi di gas e petrolio offshore vengono stimate per un valore complessivo di 250 miliardi di dollari, una cifra pari a quasi dieci volte il Pil libanese. Come accennato, la frattura sussiste rispetto a un’area di poche centinaia di chilometri quadrati ma anche sulla mera dimensione dell’area contesa.

Nei giorni scorsi lo stesso Hochstein, dopo una serie di incontri privati in Israele e Libano, intervistato dai media libanesi aveva fatto riferimento a “differenze che si assottigliano in direzione di un accordo”: accordo che secondo una fonte vicina ai negoziati, citata dal quotidiano Al Arab Al Jadeed, potrebbe prevedere uno “scambio” circolato già lo scorso febbraio, in base al quale Beirut e Tel Aviv dividerebbero equamente le risorse all’interno dell’intera area contesa, a patto che il Libano rinunci alla pretesa di sovranità su Karish e in cambio accetti lo sfruttamento esclusivo del giacimento di Qana, situato più a nord e più a largo.

È chiaro però che tanto le minacce di Nasrallah, quanto la volubilità del governo libanese – che nel 2020 ha cambiato l’estensione delle sue pretese, arrivando a rivendicare un’area di 1.430 chilometri quadrati, dagli 830 reclamati in precedenza, che non includevano Karish – e i movimenti della nave Energean, rischino di erodere questo presunto processo di costruzione di un grado di fiducia reciproca.

Il Libano è in condizioni economiche disastrose, alle prese con una delle più gravi crisi dal 1850 ad oggi, associata a una mancanza tragica di risorse energetiche e a una impossibilità ad importarne a sufficienza. La rete elettrica pubblica libanese, ormai, fornisce in media due ore giornaliere di elettricità. Lo sfruttamento dei giacimenti offshore assume quindi vitale importanza, anche se secondo gli analisti ci vorrebbero almeno sei anni perché il Libano possa iniziare a monetizzare lo sfruttamento.

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